Il-Trafiletto
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27/10/14

Per fortuna che siamo nella...cacca

A tu per tu con Emma Allen-Vercoe, l'inventrice delle feci artificiali che potrebbero salvarti la vita.


Avete finito di mangiare? Bene, possiamo cominciare.
Probabilmente avrai già sentito dire che impiantare feci di un soggetto sano in uno malato potrebbe guarire la letale infezione gastrointestinale causata dal batterio Clostridium difficile. Ma Emma Allen-Vercoe ed i suoi colleghi della University of Guelph, in Ontario, credono di poter migliorare questa strategia di trapianto "all'ingrosso".

Stanno lavorando sull'adattamento di misture di batteri intestinali per i singoli pazienti. Sfortunatamente, questi batteri sono schizzinosi e non crescono bene in una capsula di Petri, e così il suo team crea feci artificiali.

Qual’ è la speciale ricetta delle feci artificiali? 
Contengono cose come la cellulosa che, non venendo assorbita, rimane nel tratto intestinale fino alla sua porzione distale, il traguardo della digestione. È piuttosto brutta a vedersi. Si tratta di una poltiglia marrone, con grumi di amido ed è abbastanza appiccicosa. Non ha un aspetto o un odore gradevole.

Come si creano poi feci artificiali da questa poltiglia?
Attraverso il Robogut, composto da sei grossi beaker pieni di questa miscela che vengono riscaldati sino a raggiungere la normale temperatura corporea. Poi si aggiungono dei batteri da una piccola quantità di feci umane. Dato che l'ossigeno è veleno per i batteri intestinali anaerobi, ciascun contenitore è sigillato ermeticamente, mentre alcuni sensori ne controllano temperatura ed acidità.

Qual è la parte peggiore del lavorare con feci sintetiche?  
Gli scarti. Per via della regolamentazione, non possiamo semplicemente tirare lo sciacquone. Dobbiamo sterilizzarli cuocendoli a temperature molto elevate e poi buttarli via. Ciò significa che dobbiamo farlo di notte quando non c'è nessuno, perché l'intero edificio inizia ad odorare di feci.

Qual è la cosa più sorprendente che avete appreso dalle vostre ricerche? 
Il fatto che i microbi non sono il nemico. Entro i prossimi 20 anni abbandoneremo l'idea che i patogeni causino la maggior parte delle malattie. Guarderemo a queste come scatenate da un collasso nell'ecosistema microbico, uno squilibrio fra i microbi buoni che vivono già nell'organismo.
La dottoressa Emma Allen-Vercoe

Cosa vi tiene svegli di notte? 
Dato che i governi stanno rendendo molto difficile ottenere la supervisione medica per un trapianto di feci, esiste una sorta di cultura underground in cui le persone ottengono informazioni da Internet e poi procedono ai trapianti, senza alcuna supervisione. Senza una sorveglianza appropriata, potrebbero farsi molto più male che bene. Sono terrorizzata per loro.

Un sistema che inverte la paralisi

Dopo 4 anni da un incidente motociclistico che lo aveva paralizzato dal petto in giù, il 5 dicembre 2011, Andrew Meas si mosse per la prima volta. 


In una settimana, cominciò a stare in piedi. Il prodigioso recupero (seppur parziale) di Meas è avvenuto grazie all'uso di un innovativo apparato di elettrodi impiantati sopra il suo midollo spinale. Per decenni, i ricercatori hanno cercato modi per aiutare milioni di persone con lesioni al midollo spinale a riprendere il controllo dei loro arti, ma con scarsi risultati.

Gli scienziati dell'Università di Louisville, nel Kentucky, del Spinai Cord Injury Research Center, dove Meas e altri tre pazienti hanno ricevuto i loro impianti, ipotizzano che la stimolazione potrebbe risvegliare le connessioni tra il cervello e la parte inferiore del corpo. "C'è una circuitazione residua che possiamo recuperare e che nessuno mai aveva pensato di usare", spiega Reggie Edgerton, direttore del Neuromuscular Research Laboratory dell'Università della California, a Los Angeles. Alcuni benefici come un migliore controllo degli sfinteri e una migliore pressione sanguigna, rimangono anche quando il dispositivo è spento. La stimolazione elettrica non è, però, una cura.

I pazienti non possono ancora camminare e la stimolazione deve essere personalizzata per ogni individuo, il che richiede tempo. Ma è comunque un enorme progresso che "apre un nuovo meccanismo di recupero" conclude Edgerton.

COME FUNZIONA (FIG.1)

  • A Quando una persona con lesioni al midollo vuole muovere le dita dei piedi, l'impulso va dal cervello al midollo, ma non raggiungere la sua destinazione. 
  • B I sei elettrodi impiantati sul midollo spinale inferiore stimolano il circuite che controlla la parte inferiore del corpo, risvegliando i neuroni dormienti che trasportano il messaggio. 
  • C Un filo collega l'apparato di elettrodi all'elettrostimolatore, un dispositivo ricaricabile grande come un cercapersone, impiantato sull'addome nel sottocute. 
  • D Lo stimolatore avvia i vari circuiti neurali e diverse frequenze, tensioni e combinazioni di elettrodi consentono movimenti differenti.
  • E Un telecomando palmare permette all'utente di selezionare quali circuiti stimolare per esempio, le dita del piede sinistro e la gamba destra.

Fig.1


13/09/14

La disfagìa nell'anziano

In genere la deglutizione fisiologica si manifesta nel seguente schema suddiviso in 4 momenti:
• la preparazione orale;
• lo stadio orale;
• lo stadio faringeo;
• lo stadio esofageo. 


Il mal funzionamento soltanto di una di queste fasi può dare luogo alla cosiddetta disfagia, ovvero sia ad un'esagerata deglutizione. Ciò che provoca la disfagia cronica nei casi maggiori sono i disturbi neurologici, ad esempio il morbo di Parkinson, una patologia del motoneurone, disturbi neuro-muscolari, sclerosi multipla e l'Alzheimer.

A causare la disfagia cronica però, ci sono anche:
- anomalie strutturali, come tumori di testa e collo, ingrossamento della tiroide, stenosi benigne;
- infezioni da HIV, candida o herpes;
- cause iatrogene, come per esempio la perforazione dell'esofago durante l'intubazione;
La disfagia
- malattia da reflusso gastroesofageo (GERD), in seguito alla quale l'acido gastrico irrita e danneggia la mucosa dell'esofago;
- avvelenamento e / o ustioni provocati, per esempio, dall'ingestione di prodotti domestici per la pulizia.

La diagnosi clinica per mettere alla luce una disfagia include 3 fattori importanti:
1. anamnesi generale e specifica;
2. osservazione del paziente;
3. esame clinico della deglutizione.

L'anamnesi deve comprendere informazioni riguardanti i sintomi tra cui inappetenza, calo di peso, mal'essere alla gola oppure al torace durante la deglutizione del liquido salivario, perdurare e gravità dei sintomi, manifestazioni di apparente soffocamento e presenza di infezioni toraciche ricorrenti. Per avere il controllo di tutti questi elementi si potrà usufruire di prove o metri di giudizio dello screening. Tra quelli più noti c'è quello del bolo d'acqua, che è molto consigliato per la valutazione del rischio tracheobronchiale in tutti i pazienti con ictus.

Un'altra prova che potrà essere adottata è il semplice ed accurato è il Bedside Swallowing. Assessment. La prova del bolo d'acqua si svolge facendo assumere una certa quantità di acqua mentre l'addetto ai lavori giudica l'apparizione del senso di soffocamento o altri sintomi, come tosse e sforzo nel deglutire. Il Bedside Swallowing Assessment consiste nella valutazione di alcuni parametri (livello di coscienza, controllo della testa e del tronco, respirazione) e l'osservazione del paziente durante l'ingestione di un cucchiaino d'acqua. Per quel che concerne i pazienti che, sucessivamente alla valutazione clinica, sono stati dichiarati a rischio di disfagia è opportuna una valutazione clinica strumentale.

L'esame diagnostico strumentale di elezione è la videofluoroscopia, utile sia nella fase di valutazione del grado di disfagia, sia nella fase di followup per monitorare la progressione del disturbo. Secondo gli studi, la videofluoroscopia è una tecnica dotata di elevata capacità diagnostica per la valutazione dei deficit deglutitori nei soggetti affetti da SLA, perché è in grado di identificarne il grado di compro-missione e le cause determinanti. Inoltre la possibilità di eseguire lo studio con differenti tipi di bolo e con diversi atteggiamenti posturali permette di individuare gli espedienti in grado di migliorare la capacità deglutitoria.


22/08/14

Da virus mortale a cura del futuro | HIV | Seconda parte

Grazie alla ricerca sei bambini sono guariti e altri potranno sperare in una vita normale. La tecnica utilizzata dai ricercatori del TIGET consiste nello sfruttare i vettori lentivirali come veicolo per introdurre una copia corretta del gene difettoso nelle cellule del paziente. 


I vettori caricati di materiale genetico vengono inseriti nelle cellule staminali del sangue (emopoietiche) prelevate dal midollo osseo in modo da "infettarle" con il gene terapeutico e le cellule così curate vengono poi reintrodotte nell'organismo. A questo punto le cellule si replicano, generandone altre sane in grado di produrre la proteina mancante e di "condividerla" anche con altre cellule difettose già presenti nell'organismo, correggendone quindi il difetto.

Gli studi clinici sono iniziati nel 2010 e finora a beneficiare di quella che sembra essere la nuova frontiera nella lotta alle malattie genetiche sono stati 16 piccoli pazienti provenienti da tutto il mondo. I dati dello studio pubblicato si riferiscono però solo a sei di essi, quelli per cui è passato abbastanza tempo per poter avere un buon grado di certezza e sicurezza dei risultati. "Nel caso della leucodistrofia metacromatica abbiamo trattato sostanzialmente pazienti pre-sintomatici. Purtroppo non è oggi pensabile . trattare pazienti in stadio molto avanzato e far regredire la malattia", spiega Naldini. A tutti i bambini inseriti nello studio era infatti stata diagnosticata la malattia e molti avevano fratelli più grandi colpiti dallo stesso male, ma nessuno aveva ancora manifestato i sintomi caratteristici.

I bambini oggi stanno tutti bene, conducono una vita normale e hanno raggiunto un'età in cui in genere la patologia è già in stadio avanzato. La domanda che adesso ci si pone è se l'effetto terapeutico durerà per tutta la vita. "Noi abbiamo agito su cellule staminali, che per definizione dovrebbero auto mantenersi per tutta la vita. Ci aspettiamo quindi che l'effetto terapeutico sia permanente, ma la certezza potremo averla solo con l'osservazione", conclude Naldini. Per avere i risultati definitivi bisognerà attendere ancora tre anni, quando saranno disponibili i dati relativi anche agli ultimi pazienti trattati. Ma la storia non finisce qui. "La riuscita ingegnerizzazione delle cellule staminali del sangue apre le porte alla possibilità concreta di estendere, in futuro, questo approccio terapeutico anche ad altri tipi di malattie più diffuse", conclude Naldini.

Questo risultato è un grande successo per la ricerca italiana, che ancora una volta ha dimostrato la sua eccellenza nonostante le innumerevoli difficoltà che si trova a fronteggiare. "Quando si parla dei mali della ricerca italiana il tema principale è sicuramente la scarsità dei finanziamenti, ma il vero problema è una non ideale allocazione dei fondi, perché ce dispersione e non sempre vengono premiati i migliori", afferma Pasinelli. "Grazie al modello di rigorosa selezione dei programmi di ricerca da noi adottato, che permette di dare a pochi tutto quello di cui hanno bisogno, anche in Italia è possibile arrivare ad avere ricerca competitiva a livello mondiale, nonostante risorse indubbiamente più limitate.

Se venisse applicato regolarmente sono sicura che i programmi di ricerca dell'accademia italiana ne beneficerebbero notevolmente".(science)

10/08/14

Roma | Policlinico Umberto I: il senatore deve stare in una stanza singola, cacciati gli altri pazienti.

Il malcostume continua e imperversa, nonostante le belle parole (solo parole) che si ripetono nelle alte sfere del Parlamento, di un cambiamento che possa migliorare le sorti di un’Italia allo sbando in tutti i settori. Quello che è accaduto al Policlinico Umberto I di Roma ha dell’incredibile, e potremmo sicuramente annoverarlo come l’ennesimo caso di malasanità. Un’infermiera alcuni giorni fa ha avuto disposizioni di liberare, nel reparto dove lavorava, una stanza dai pazienti che vi erano ricoverati, i quali sono stati poi “sistemati” in altre stanze già al completo, lasciando la stanza in questione completamente vuota. Il motivo? Di lì a poco sarebbe dovuto arrivare un senatore, il quale doveva stare, disposizioni del primario, in una stanza singola. A questo punto l’infermiera in questione, Roberta Cristofani, del reparto di Medicina Interna del Policlinico Umberto I di Roma, ha scritto una lettera aperta al proprio primario, pubblicandola sul proprio profilo Facebook e inviandola alla stampa.
Alla cortese attenzione del professor Violi (Policlinico Umberto I, Roma), da una studentessa di Infermieristica - Lettera aperta.

 Gentile professor Violi, le rubo qualche istante del suo tempo per raccontarle una breve storia. Sono una studentessa di Infermieristica del primo anno e al mio secondo tirocinio mi sono trovata a lavorare nel suo reparto di Medicina Interna. Una sera, verso le 20, ho notato una certa agitazione da parte del personale. Due pazienti, senza ricevere alcuna spiegazione, sono stati spostati in stanze in cui erano presenti già altri quattro letti, mentre quella in cui si trovavano loro è rimasta vuota. Lo stato di agitazione continuava: apriamo le finestre, spruzziamo un deodorante, il nuovo letto deve essere perfetto. IL nuovo letto. Uno solo. Io non ho molta esperienza, per questo mi è sembrato naturale chiedere lumi. “Domani arriva il senatore. Deve stare in una stanza singola, disposizioni del primario.” Di primo acchito, non ho capito molto di ciò che mi era stato comunicato. Perché mai il senatore dovrebbe stare in una stanza singola? Con la penuria di letti che abbiamo, tra l’altro? E perché avremmo dovuto scomodare altri due pazienti per permettere a una persona di stare in una stanza singola? Riesce minimamente a percepire la mia incredulità? Incredulità che non ha fatto che aumentare, notando che al paziente venivano concesse visite a qualsiasi ora, nonché qualsiasi tipo di trattamento di favore. Altre “disposizioni del primario”, immagino. Caro professore, le scrivo per dirle che mi sento profondamente offesa. Dal momento in cui varca la soglia del reparto, il paziente per me è semplicemente una persona, ovviamente con pari dignità e diritti rispetto a tutte le altre. Cosa mi importa che nella vita faccia lo spazzino, il salumiere, l’insegnante o il senatore? Mi trovo di fronte, sempre e comunque, una PERSONA: spesso spaventata, con mille dubbi e incertezze, turbata, fuori dall’ambiente rassicurante della sua casa. E non è forse questo uno dei doveri dell’infermiere? Far sì che la persona che entra in reparto si senta accolta, rassicurata, ascoltata, al di là di chi è, cosa fa di mestiere o del suo status sociale? Può anche solo lontanamente immaginare l’umiliazione che ho provato nel comunicare ai due pazienti che occupavano la stanza sgomberata per far posto al senatore che avrebbero dovuto spostarsi? “Voi siete malati di serie B, dovete far spazio al malato di serie A.” Quel compito ingrato, me lo lasci dire, sarebbe toccato a lei, professore. Non a una studentessa che non riesce a farsi una ragione di episodi del genere. E sì, mi sento offesa. Sento che, rendendomi strumento di questo tipo di ingiustizie, lei ha sminuito la mia professionalità, l’impegno che metto ogni giorno per migliorarmi e diventare una brava infermiera. Così come, e questo è un mio modesto parere, ha sminuitola professionalità e il duro lavoro della caposala e di tutti gli infermieri che giorno per giorno si impegnano per dare al paziente, ad OGNI paziente, le migliori cure possibili e l’accoglienza di cui parlavo. La prego, per il futuro, di non mettermi più in una situazione tanto imbarazzante e umiliante. La prego, con tutto il cuore, di non lasciarmi con la sensazione amara che “tutti i pazienti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.” Cordialmente, R. Cristofani

26/07/14

Quel dito storto che risponde al nome di alluce valgo.

L’alluce valgo è una patologia tra le più diffuse riguardanti l’avampiede. È una deformazione dell'alluce che si traduce in una deviazione dell’articolazione metatarso-falangea di questo dito in direzione delle altre dita. In alcuni casi l’alluce tende addirittura ad accavallarsi sul secondo e persino sul terzo dito del piede. È dunque una malformazione, caratteristica dell’età adulta, ma possiamo diagnosticarlo anche nei pazienti più giovani, e se questi ultimi praticano una qualche attività agonistica, può rivelarsi un vero problema. Ma come e quando viene l'alluce valgo? L'eziologia sembra abbia una multifattorialità, infatti si parla di alluce valgo congenito (primario) o acquisito (secondario). Quest'ultima causa, si è visto, si è riscontrata spesso e volentieri in quelle persone che usano determinati tipi di calzature,e colpisce molto più frequentemente i soggetti di sesso femminile, probabilmente a causa della poco maneggevolezza, sebbene alla moda, appunto delle loro calzature. Infatti raramente si riscontra l’alluce valgo in soggetti che camminano scalzi. Uno studio giapponese del 1981 dimostrò che, prima del 1945, in Giappone l'alluce valgo era pressoché sconosciuto, dal momento che la quasi totalità del popolo giapponese era solito indossare i "tabi", i tradizionali calzini che arrivano all’altezza della caviglia e che dividono l’alluce dalle altre dita; poi, dopo il 1945, anno in cui il popolo del sol levante ha iniziato a indossare anche le calzature di tipo occidentale, si è osservato un aumento dei casi di alluce valgo. La caratteristica fisica dell'alluce valgo è la famosa "cipolla", che causa dolore al contatto con la calzatura. La diagnosi è abbastanza evidente ad occhio nudo ma si consiglia una radiografia. Qual'è il tipo di trattamento per un alluce valgo? L'uso di plantari può essere utile e sufficiente per bloccare l'insorgenza nei casi più semplici, senza possibilità peraltro di far regredire quello che ormai è in atto, mentre nei casi più conclamati è opportuno affidarsi ad un intervento chirurgico, dove non esiste una tecnica standard oppure una migliore delle altre. Una volta effettuato l'intervento, il decorso sarà quello dell'uso di antidolorifici nei primi 2-3 giorni, la deambulazione è immediata e la prognosi è di circa 60 giorni, inframmezzati da una visita di controllo, al termine dei quali il paziente viene considerato guarito. (immagine presa dal web)

23/04/14

Ce lo dirà un’analisi del sangue se avremo l’Alzheimer.

Dai risultati di uno studio dell'Università Cattolica di Roma e dell'ospedale Fatebenefratelli di Roma e Brescia e pubblicato sulla rivista scientifica "Annals of Neurology" si è scoperto che da un esame del sangue possiamo sapere se corriamo il rischio di ammalarci di Alzheimer, misurando la concentrazione di rame libero nel plasma, concentrazione che, se elevata, triplica il rischio di malattia. "La prospettiva è di prevenire la malattia abbassando i valori di rame nel sangue di soggetti a rischio", spiega Rosanna Squitti, del Fatebenefratelli di Roma."Negli ultimi anni diversi studi hanno confermato che il rame gioca un ruolo importante nei processi patologici della malattia nel 60% circa dei pazienti", spiega il coordinatore del lavoro Paolo Maria Rossini del Policlinico Gemelli. "Il rame libero, circolante nel sangue - che è in grado di raggiungere il cervello esercitando un'azione tossica - potrebbe divenire, dunque, un bersaglio preferenziale di terapie preventive almeno per i casi correlati appunto al rame". Nello studio gli esperti hanno seguito per 4 anni pazienti con lieve declino cognitivo e quindi ad alto rischio di Alzheimer. Su questi pazienti è stato eseguito il test del rame all'inizio dello studio. È emerso che con concentrazioni plasmatiche elevate di rame libero si ha un rischio triplicato di ammalarsi di Alzheimer. E’ di un mese fa l'annuncio di esperti della Georgetown University (negli Stati Uniti) circa un test del sangue con un'accuratezza del 90% per diagnosticare l'arrivo della patologia nell'arco di tre anni, misurando i livelli di 10 molecole. Il test italiano riguarda quei casi di Alzheimer che si possono considerare "rame-correlati" e potrebbe portare in pochi anni a terapie preventive volte ad abbassare i livelli di rame nei soggetti a rischio ed evitare così una caduta precoce nella patologia dell’Alzheimer.

09/04/14

USA | La ricerca accende la speranza: i Paraplegici torneranno a camminare?

La ricerca medica non finisce mai di stupire. Un eccezionale risultato è stato raggiunto dai medici statunitensi dell’University of Louisville e dell’University of California. In uno studio pubblicato su Brain quattro pazienti paralizzati, Andrew Meas, Dustin Shillcox, Kent Stephenson e Rob Summers sono stati trattati presso l’University of Louisville’s Kentucky Spinal Cord Injury Research Centre e , sono stati in grado di flettere dita dei piedi, caviglie e ginocchia, ma non di camminare autonomamente, grazie alla stimolazione epidurale elettrica del midollo spinale. Stando ai ricercatori l'elettricità renderebbe il midollo spinale più reattivo ai pochi messaggi che ancora arrivano dal cervello, dunque l'elettrostimolazione potrebbe diventare in futuro un trattamento per le vittime di lesioni spinali. Il midollo spinale si comporta, infatti, come una linea ferroviaria ad alta velocità, che trasporta messaggi elettrici dal cervello al resto del corpo. Se ci sono danni sui binari, il messaggio non supera l’ostacolo e non arriva a destinazione. Il team Usa, con un approccio pionieristico, ha applicato la stimolazione elettrica al midollo spinale al di sotto della lesione. La ricerca è stata finanziata dalla Reeve Foundation, la fondazione voluta dallo scomparso attore di 'Superman', Christopher Reeve, paralizzato dopo una caduta da cavallo, oltre che dai National Institutes of Health. Questa tecnica sperimentale non coinvolge la riparazione del midollo spinale, ma può avere un ruolo importante nell’aiutare altri pazienti paralizzati a riacquistare il movimento. La tecnica ha delle limitazioni: i quattro pazienti hanno dovuto cambiare l’impostazione per ogni movimento delle gambe. E nessuno è in grado di camminare senza aiuto. Ma i ricercatori assicurano che la qualità della vita dei pazienti è notevolmente migliorata, come pure la massa muscolare, il controllo di vescica e la funzione sessuale. Insomma, per gli studiosi questa potrebbe essere una delle nuove armi per aiutare le persone paralizzate dopo un incidente d’auto o un altro trauma, a ritrovare il movimento.

09/03/14

Avastin-Lucentis | Disastro doloso e associazione a delinquere per i colossi farmaceutici Roche - Novartis

I due colossi farmaceutici svizzeri Roche e Novartis saranno indagati per disastro doloso e associazione a delinquere nell'ambito dell'inchiesta aperta dalla Procura di Torino in riferimento alla supposta campagna di denigrazione del farmaco “Avastin” a vantaggio del più costoso “Lucentis”, due farmaci usati in oftalmologia, e che ha indotto l'Antitrust a comminare una multa di 180 milioni di euro a ciascuna delle due aziende. “ I due gruppi – si legge sul sito dell’Autorità – si sono accordati illecitamente per ostacolare la diffusione dell’uso di un farmaco molto economico, Avastin, nella cura della più diffusa patologia della vista tra gli anziani e di altre gravi malattie oculistiche, a vantaggio di un prodotto molto più costoso, Lucentis, differenziando artificiosamente i due prodotti”. Il disastro doloso viene imputato per il fatto che questo accordo illecito potrebbe aver messo in pericolo la salute dei pazienti che, per l’elevato prezzo del farmaco, non avrebbero potuto accedere alle cure, mentre l’associazione a delinquere è in relazione alla truffa e al reato di rialzo fraudolento di prezzi. Intanto sembra stiano spuntando alcune mail che proverebbero l’accordo tra le aziende. “L’azione della magistratura è doverosa e deve fare chiarezza perché il fenomeno ha avuto evidemagistratura, mailnza e cifre molto importanti”, commenta Giacomo Milillo, segretario nazionale Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg).

01/03/14

Elettricità | Sveglia per chi dorme in...coma?

Elettricità! Sveglia per chi dorme in...coma? La nuova idea scientifica riguarda dunque la stimolazione elettrica transcraniale diretta, cioè l’applicazione di una leggera corrente sul cranio attraverso una serie di elettrodi innestati sul cuoio capelluto.

Si tratta di una tecnica innovativa che ultimamente sta trovando sempre di più il suo impiego nel settore medico. La nuova tecnica dunque, ovvero sia la stimolazione elettrica transcraniale diretta è stata utilizzata con successo dai ricercatori della University of Oxford per aumentare le abilità matematiche di alcuni studenti, anche se in quella circostanza non si erano risparmiati certi detrattori, secondo cui gli introiti avuti da tale innovazione, avrebbero dato luogo ad un deficit importante in altri settori. Comunque sia, gli scienziati dell'Università di Liegi, coordinati da Steven Laureys, dichiarano oggi di aver raggiunto un obiettivo ancora più ambizioso: usare la tDSC per svegliare pazienti in stato minimamente cosciente o vegetativo!
tDSC
stimolazione elettrica transcraniale diretta

Attenzione! Per svegliare, specificano i ricercatori, s’intende semplicemente recuperare alcune funzioni di base che si credevano perdute per sempre. Ed inoltre per un tempo assai limitato: “Non voglio dare false speranze alle famiglie dei malati”, dice Laureys a NewScientist. “Le persone che abbiamo sottoposto a stimolazione elettrica transcraniale diretta non si sono alzate né hanno iniziato a camminare. La tecnica però mostra buone potenzialità per un lieve recupero, anche anni dopo il danno”.

L’équipe di Laureys ha lavorato con 55 pazienti che a causa di gravi danni cerebrali o mancanza di ossigeno al cervello, come dicevamo, erano in stato vegetativo (cioè in cui sono presenti le fasi di sonno e veglia e i riflessi, ma non c’è alcuna consapevolezza) o di minima coscienza (in cui si avverte il dolore e si provano alcune emozioni, ma si è impossibilitati a comunicare). Gli scienziati hanno posto degli elettrodi sulla corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra dei pazienti, l’area del cervello coinvolta nella memoria, nei processi decisionali e nella coscienza. Hanno quindi eseguito venti minuti di stimolazione su metà di loro e un trattamento placebo sull’altra metà.

“Durante e subito dopo le stimolazioni”, racconta ancora NewScientist, “13 persone in stato minimamente cosciente e 2 persone in stato vegetativo hanno mostrato segni di consapevolezza mai osservati prima. Nel gruppo trattato con placebo non si sono osservati gli stessi miglioramenti”. Alcuni pazienti erano addirittura in grado di rispondere a semplici domande muovendo la testa o gli occhi e stringendo le mani. I risultati completi dello studio non sono ancora disponibili, ma saranno presto pubblicati sulla rivista Neurology per un vaglio più approfondito.

Anche perché, ammettono gli scienziati, non è chiaro come funzioni esattamente il trattamento: l’ipotesi più probabile è che agisca su un’attività cerebrale precedentemente soppressa, innalzandola al di sopra di una certa soglia. L’effetto, purtroppo, è durato soltanto un paio d’ore, dopo le quali i pazienti sono scivolati di nuovo nello stato di incomunicabilità in cui si trovavano prima. Nessuno può dire con certezza cosa sia successo in quelle due ore: “I pazienti potrebbero aver provato la stessa sensazione che abbiamo quando dormiamo in un hotel e ci svegliamo all’improvviso senza sapere dove siamo”, spiega Laureys. Gli scienziati stanno ora lavorando per allargare il più possibile questa finestra temporale, magari aumentando la durata della stimolazione cerebrale che specificano, non ha alcun effetto collaterale.

19/10/13

Scoperta sensazionale negli Stati Uniti: trovati i geni "killer" del cancro!

Scoperta sensazionale negli Stati Uniti: trovati i geni "killer" del cancro! Un decisivo passo avanti nella infinita sfida contro il cancro, grazie alla scoperta dei geni necessari per leberare e alimentare la malattia. Questo è un risultato, che apre in maneira evidente nuovi orizzonti alle cure anticancro personalizzate, in particolar modo al più comune e devastante tumore del cervello, ovvero il glioblastoma multiforme, ed è stato peraltro pubblicato sulla rivista Nature Genetics. La ricerca è stata condotta dal gruppo della Columbia University di New York con a capo della stessa l'Italiano Antonio Iavarone, che ha lasciato la nostra Nazione molti anni fa denunciando un gravissimo caso di nepotismo.
Ormai da tempo si era in possesso della mappa genetica di varie forme di tumore, come quelli che colpiscono il polmone, intestino, seno e prostata, ma soltanto adesso per la prima volta nella storia della medicina diventerà possibile individuare, all'interno di queste mappe, i geni davvero pericolosi, quelli necessari al cancro per potere sopravvivere: averli scoprirti vuol dire essere in possesso dei bersagli sensibili contro i quali utilizzare i farmaci e fare un passo decisivo verso cure personalizzate. «Nel nostro studio abbiamo scoperto che, grazie alla comprensione delle alterazioni genetiche presenti in un singolo tumore, per circa il 15% dei pazienti potrebbero essere disponibili farmaci già esistenti», ha detto all'Ansa Iavarone, che ha condotto la ricerca con un'altra italiana, Anna Lasorella. «Ricerche come queste - ha aggiunto - sono tanto più importanti in quanto si concentrano su tumori per i quali non ci sono terapie efficaci, come i tumori maligni del cervello».
Geni "killer" del Cancro

La scoperta conferma l'appello recentemente lanciato negli Stati Uniti dagli oncologi per cancellare la parola "tumore". «È una richiesta - ha proseguito Iavarone - che parte dal fatto che ogni caso di tumore è diverso dall'altro e può avere una possibilità terapeutica in alcuni casi immediatamente possibile». Non esiste più quindi "il tumore", ma una miriade di malattie causate da altrettante alterazioni genetiche dalle quali dipendono completamente. «Non basta avere la lista dei geni legati a un tumore: bisogna individuare quelli dai quali la malattia dipende come da una droga» ha osservato il ricercatore. «Colpirli - ha aggiunto - significa far collassare il tumore» e per ognuno di essi è possibile sperimentare un farmaco diverso, fra quelli già disponibili sul mercato. Ciò significa anche poter abbreviare i tempi della sperimentazione, poiché i farmaci sul mercato hanno già superato le prove relative alla sicurezza.
Gli strumenti per andare a caccia dei geni killer arrivano dalla bioinformatica, grazie all'algoritmo progettato da Raul Rabadan, sempre della Columbia University. Una volta individuati, la loro funzione viene studiata nelle cellule staminali tumorali prelevate dal paziente. Questo permette di sperimentare farmaci antitumorali oggi disponibili contro i bersagli giusti, una volta trasferite nei topi le staminali tumorali prelevate dai pazienti.
In questo modo è possibile verificare se la terapia individuata è davvero efficace. Tutto è ancora ad un livello sperimentale e la strada appena all'inizio, ma di sicuro è stata aperta una via nuova, una «roadmap» nella lotta ai tumori, come la definiscono gli stessi ricercatori.
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