Il-Trafiletto
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05/09/14

La Nato consolida le forze per far fronte alla crisi ucraina

La Nato cerca di consolidare le forze per far fronte alla crisi ucraina, mentre cresce la cooperazione fra i partner per tamponare la minaccia islamica sullo scenario siro-iracheno. 


Si attende il vertice di Newport che si dovrebbe chiudere in giornata. L'attenzione è puntata su Minsk la capitale bielorussa dove il presidente ucraino Petro Poroshenko dovrebbe sancire il cessate il fuoco nell'est del Paese, anticipo ad un percorso di negoziazioni con le forze indipendentiste filo russe, il tutto naturalmente con l'approvazione di Mosca.

Il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, ritiene che le parole della Russia siano state falsità fino ad ora. Mezzi militari di Mosca sono in Ucraina, e per la prima volta dalla seconda guerra mondiale in Europa un Paese ha cercato di conquistarne un altro. Il ministro degli esteri italiano e prossimo Alto rappresentante per la politica estera dell'Ue, ha escluso che sia un "prologo a una soluzione targata Nato", precisando che «l'unica via è politico - diplomatica».

Dunque per cercare di rafforzare le sue posizioni, la Nato a Newport ha intenzione di varare cinque nuove basi in altrettanti Paesi dell'Est europeo, definirne i contingenti e, soprattutto, nuova Forza di intervento rapido di 4mila uomini che dovrà agire per i Paesi alleati, ma appare elemento di ulteriore rassicurazione anche per Kiev. Stiamo attesa di capire come finirà la partita che comincia venerdì a Minsk, è se siamo dinnanzi all'ennesimo bluff di Vladimir Putin.

Il consigliere per la sicurezza della Casa Bianca, Ben Rhodes, ha confermato che gli Usa stanno studiando nuove sanzioni e che dovrebbero essere coordinate con quelle che l'Unione europea sta mettendo a punto e dovrebbe approvare già oggi. Nonostante qualche resistenza francese, la Germania è stata esplicita. «Siamo pronti - ha detto il Cancelliere Angela Merkel - a mettere tutto il peso di nuove sanzioni economiche sulle nostre domande politiche».

I leader alleati si sono anche misurati con lo spinoso capitolo ISIS, ovvero la minaccia dello Stato Islamico che si va formando in punta di cannone fra Siria e Iraq. «Se riceveremo una richiesta di assistenza dall'Iraq - ha confermato il segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen - la valuteremo».

In realtà cresce il consenso per azioni dei singoli stati al fianco degli Usa. Il premier inglese David Cameron ha ieri confermato l'invio di aiuti militari ai peshmerga curdi e annunciato di «non escludere» alcun intervento. Nella notte il re di Giordania Abdallah II ha illustrato ai capi di stato e di governo della Nato il piano in tre fasi che vorrebbe sviluppare per ribattere la minaccia dei terroristi sunniti che impazzano fra Siria ed Iraq.

04/09/14

Freehold ricorda le vittime della guerra

Sessantanove anni fa finiva la guerra ed ecco un altro monumento, messo a Freehold, che vuole ricordare tutte le vittime ingiuste della seconda guerra mondiale. 


Tante sono state le vittime a Freehold, piccola cittadina di due chilometri quadrati e in questa lastra alta 7 piedi ci sono incisi, i 1.385 nomi di uomini e donne che tra il 1941-1945 sono partiti per la guerra e non sono più tornati e questo monumento è stato fatto per non dimenticare questi tristi momenti della storia ed essere un monito per le nuove generazioni, che la guerra porta solo vittime e terrore.

Mentre sull'altro lato si vede la famosa immagine fotografica dei marines che alzano la bandiera degli Stati Uniti sull'isola di Iwo Jima, ponendo fine a questa dolorosa guerra.
Una dedica formale è poi prevista per un'altra data significativa, il 1 settembre del giorno nel 1939, quando la Germania nazista ha dato il via alla guerra in Europa invadendo la Polonia.

Una volta completati i monumeti verrà fatta una pavimentazione in mattoni e saranno messe varie panchine, il progetto è costato circa 100.000 dollari.
Monumento in ricordo delle vittime della guerra

Steven Joel Sotloff si sfoga contro Obama e i poteri forti

Vi propongo il secondo messaggio mandato al presidente degli Stati Uniti Obama, da Steven Joel Sotloff, giornalista americano, prima di subire la pena della decapitazione.


Io sono Steven Joel Sotloff, vi lascio come testamento questo messaggio che spero qualcuno possa tradurre a tutto il mondo.

Caro presidente Obama, la vostra politica estera con l'intervento in Iraq doveva essere la preservazione delle vite e degli interessi americani, quindi perché io sto pagando il prezzo della tua interferenza con la mia vita? Non sono forse anche io un cittadino americano come te? Sono stati spesi miliardi di dollari della nostra gente e abbiamo perso migliaia di soldati nelle nostre truppe, in questo stupido combattimento contro lo Stato islamico, quindi, fai gli interessi del popolo a riaccendere questa guerra o di chi? 

Da quel poco che so di politica estera, mi ricordo un momento in cui non si poteva vincere le elezioni senza promettere di portare le nostre truppe via dall'Iraq e dall'Afghanistan e di chiudere le prigioni di Guantanamo, ma a quanto vedo: qui ci si sta ora, come ci si stava un tempo. 
Obama, sei quasi alla fine del tuo mandato, cosa hai fatto in questi anni? Hai solo ingannato il tuo popolo e lo stai facendo bruciare in una guerra economica e di poteri forti.
Guerra dei poteri forti


17/06/14

Il conflitto è il padre di tutte le cose

«Il conflitto è il padre di tutte le cose». Una relazione sana cresce con il confronto, mentre la negazione del conflitto può farla ammalare lentamente

Quattro passi insieme:

Analizziamo in quattro fasi la gestione del confitto, con alcuni suggerimenti per ciascuna di esse: RICONOSCIMENTO.
Non anestetizzarsi di fronte ai conflitti (per sfiducia nelle proprie capacità di affrontarli o fatalismo): riuscire a definirli con chiarezza è un primo passo fondamentale.
INDUGIO
Accettare, tollerare, sostare nel conflitto: significa prendersi il tempo di elaborarlo emotivamente, sfuggire all'impulso di trovare subito una soluzione (magari stereotipata o aggressiva) per tamponare l'ansia. Ascoltarsi, e ascoltare l'altro, per comprendere. Contare fino a dieci, e anche di più.
COMUNICAZIONE
Spostare lo scontro dal piano immediato a quello simbolico: implica il sapersi decentrare, per ascoltare e accogliere il punto di vista altrui (è utile riassumerlo ad alta voce, per essere sicuri di aver compreso); esprimere le proprie emozioni e richieste, anziché giudizi (per esempio: «sono a disagio quando non rispetti gli orari, ti chiederei di essere più preciso» è più corretto che «sei il solito ritardatario»); restare sul tema, non deviare sul passato o su accuse tangenziali. Può essere utile la presenza di un facilitatore, e/o l'uso di rituali specifici.
SOLUZIONE.
La creatività è il principio vincente: la negoziazione è un processo che avviene per un certo periodo di tempo, in cui si cerca una soluzione senza perdenti, che soddisfi le esigenze di tutti o almeno rientri nella logica del minor danno. La crescita potenzialmente presente in questa fase è notevole, purché si riesca a non approfittare della superiorità di una parte sull'altra. La logica di potere è ricattatoria e involutiva, nonché aggressiva. Sono utili le tecniche di sviluppo della creatività, come il brainstorming. (Il brainstorming è una tecnica di creatività di gruppo per far emergere idee volte alla risoluzione di un problema)
Prima parte: Facciamo la pace | nè vinti nè vincitori.

15/06/14

Facciamo la pace | nè vinti nè vincitori.

COME COMPORTARSI DI FRONTE AD UN CONFLITTO PERSONALE

Vivere senza litigare è spesso un'utopia. Più facile, invece, imparare a disinnescare una situazione potenzialmente esplosiva. Con i parenti, come con i colleghi di lavoro. Senza creare nè vinti, nè vincitori.

Oggi parlare di pace sembra proprio difficile. Sarebbe bello poter essere promotori di armonia, almeno nel nostro microcosmo. E invece spesso ci troviamo a litigare proprio con chi amiamo di più, i genitori, i figli, il partner, noi stessi. Per non parlare poi di coloro che non amiamo affatto, con cui il conflitto è sempre pronto: i prepotenti, i furbi ... Si tende a colpevolizzarsi proprio per quest'incapacità di andar d'accordo, oppure, secondo il carattere, a colpevolizzare l'altro. In realtà convivere è un' arte che s'impara, e il primo passo è riconoscerne la complessità. Purtroppo, siamo stati educati a temere il conflitto, a evitarlo, non a gestirlo. Ma la pace costante non è possibile, finché siamo vivi. È un obiettivo irraggiungibile, che può solo generare ansia. Un'insegnante, per esempio, che si trova quotidianamente in una classe irrequieta, vive con frustrazione e sconforto la fatica di mantenere una disciplina. Eppure è fisiologico che i ragazzi si comportino così: il punto è capire con quale atteggiamento affrontarli, non pretendere che stiano buoni. La pace a tutti costi di solito porta alla guerra, che omogeneizza e impone la bontà. Un genitore che non tollera i litigi con i figli può arrivare a sopprimerli con 1'autorità. Ma i conflitti repressi, in ambito psicologico, conducono a comportamenti devianti. È dunque importante accettare che i conflitti inevitabili, e parte della vita: non hanno una connotazione negativa, dipende da come li si gestisce. Da essi nascono talvolta sviluppi impensati e profiqui.
Facciamo la pace

ACCETTARE IL PRIMO PASSO Secondo Eraclito, il conflitto è il padre di tutte le cose. È bello vederlo come un elemento generativo, una risorsa creativa. Non solo tollerare o controllare le divergenze, ma accettarne la sfida e crescere. Nell'infanzia è il conflitto a determinare la costruzione della propria identità. Si pensi ai primi «no!», che servono a tracciare dei confini tra il bambino e la mamma, o a porre dei limiti all'onnipotenza infantile.
Accettare i conflitti significa riconoscerli e affrontarli senza temere di distruggere la relazione: che anzi ne può venire arricchita e migliorata. La separazione, l'allontanamento, la rottura: sono questi fantasmi a spaventarci e a farei temere il litigio. Ma una relazione sana cresce con il confronto, mentre la negazione del conflitto può farIa ammalare lentamente.
Quando i bambini si picchiano, gli adulti spesso intervengono picchiandoli a loro volta, oppure ergendosi a giudice e giuria. Secondo i pedagogisti è molto difficile per l'adulto, educato a reprimere i contrasti, tollerare il conflitto tra bambini, e aiutarli a trasformare l'esperienza, a volte indubbiamente dolorosa, del litigio in una dinamica di "competenza al conflitto", dove l'altro non viene trasformato in nemico, demonizzato, ma mantenuto in un rapporto di vicinanza, di empatia.
Eppure l'educazione alla pace nasce da questi episodi. Meglio lasciare il più possibile che i fratelli se la sbrighino da soli, nei loro frequenti e laceranti contrasti. Quando è necessario accorrere (si stanno facendo male o cercano alleanza contro l'altro) è importante aiutarli a negoziare fra di loro, senza suggerire delle soluzioni (Fate a turno) oppure prendere le difese di uno dei due (Lui è più piccolo!), ma facendo sì che entrambi apprendano a esporre le proprie ragioni, ascoltare quelle dell'altro, e a proporre delle mediazioni creative.
L'adulto diventa cioè un facilitatore, e insegna indirettamente a non dipendere dall'adulto-giudice; che non vince il più forte o il più debole, ma la soluzione migliore per tutti. Di fatto, non ci dovrebbero mai essere vincitori né vinti: la vera vittoria è la trasformazione di conflitti spesso insolubili in proposte comuni.

COME FARE? La condizione fondamentale perché questo avvenga è che si riesca a comunicare, cioè a mantenere il conflitto sul piano simbolico: nel momento in cui viene invece agito d'impulso con azioni aggressive dirette, diventa arduo uscirne indenni, comunque vada a finire. Un proverbio africano dice che: «Non ci sono mai due persone che non si capiscono; ci sono solo due persone che non hanno discusso ». 
«Parlare senza pensare è come sparare senza mirare», diceva Sartre. Anche la comunicazione, per servire, deve essere corretta. Lo spiega bene Jerome Liss descrivendo la «comunicazione ecologica»: aiuta i gruppi a mantenere una coesione globale verso un comune obiettivo, pur rispettando la diversità di ciascun individuo e stimolandone le risorse.
In pratica si tratta di seguire alcune regole, magari con l'aiuto di un facilitatore (l'insegnante, il leader, il genitore, ma anche un membro qualsiasi a turno). In fondo sono semplici accorgimenti anche un po' ovvi, come quello di rispettare ciascuno il proprio spazio per parlare, essere concreti, evitare i giudizi e trasformarli in richieste specifiche, ascoltare con attenzione l'altro, ecc. Rifletterei su aiuta, perché sono abitudini non ben assimilate, da esercitare e trasmettere prima di tutto con l'esempio. Anche i rituali possono essere molto utili, a tutte le età: il libro delle lagnanze, il tavolo delle trattative, il cerchio (con o senza calumet della pace...)

SAPERSI ARRENDERE Eppure talvolta, pur consapevoli della scorrettezza di alcuni modi, non riusciamo a fare a meno di usarli: perché si vuole litigare? In particolare nelle coppie, è frequente che l'oggetto della lite sia in realtà un pretesto che fa da paravento, nella sua evidente irrilevanza, a tematiche ben più gravi di cui invece non si ha coscienza.
Allora negoziare sui fatti serve a poco, la rabbia ha altre sorgenti e motivazioni che vanno comprese innanzi tutto da se stessi...Meglio allora ritirarsi, non battere il ferro finché è caldo, in questo caso.
 Ricordiamoci che sapersi arrendere, in molti casi, è un ingrediente dell'amore: con il partner, i figli, con alcune parti di noi stessi. Ma subire è diverso, ed è un errore da evitare perché invece allontana dall'amore.
L'arte della convivenza consiste nel saper equilibrare i nostri bisogni con quelli degli altri, senza sacrificarci e senza invadere, per il massimo benessere comune, o almeno per il minor danno. Ciò richiede una buona capacità di delineare dei confini invisibili, soggettivi, di rispettarli e di farli rispettare.
Come nell'aneddoto del filosofo Schopenhauer: .«Due porcospini morivano di freddo e decisero di scaldarsi stringendosi il più possibile, ma presto si accorsero che si pungevano terribilmente con i loro aculei; così si allontanarono, ma il freddo ricominciò a farsi sentire. Dopo numerose e faticose prove, trovarono la giusta distanza che consentiva loro di tenersi al caldo ma non pungersi troppo». 
È importante dire dei no, tanto quanto accettarli, avere il coraggio di esporsi ed esprimere le nostre esigenze, darci il diritto di chiedere. Negoziare, collaborare nella ricerca creativa di soluzioni che accontentino tutti, sapendo che non è facile, ma che riuscirci assicura una crescita positiva dell'autostima e della qualità del rapporto.

06/06/14

6 giugno 1944 - 6 giugno 2014. con "l'operazione Overlord" inizia lo sbarco in Normandia. 70 anni.

La mattina di martedì 6 giugno 1944 ebbe inizio l'operazione Overlord, più famosa come lo sbarco in Normandia, effettuato dagli alleati contro le forze tedesche di Hitler. Settecento navi da guerra pronte a difendere cinquemila piroscafi, aiutate da tredicimila aeroplani con centocinquantamila uomini, in tutto tre milioni di soldati, due dei quali americani, gli altri distribuiti tra francesi, inglesi, norvegesi, polacchi, cecoslovacchi. Fu la svolta decisiva della seconda guerra mondiale, ma fu decisamente pagata con il sangue. Un enorme successo militare conseguito molto intelligentemente dalle truppe alleate che riuscirono ad ingannare le truppe tedesche circa il luogo dello sbarco. Mentre gli americani avevano intenzione di sbarcare a Calais, andando direttamente incontro alle truppe tedesche, gli inglesi scelsero le spiagge della Normandia, secondo loro più penetrabili. Infatti fu deciso secondo il volere inglese nell'agosto del 1943, alla Conferenza di Quebec. L'operazione Overlord inizio alla mezzanotte del 5 giugno e fu portata avanti in tutti i minimi particolari. alle 6,30 di mattina gli uomini di Roosevelt toccarono il suolo francese e cominciarono ad infrangere la resistenza tedesca. Il prezzo pagato per questa operazione fu di 10300 vittime, delle quali 6600 americane e 2700 inglesi. Ancora oggi chi si reca in Normandia per turismo può rivivere i momenti e i ricordi di quella notte. Infatti ancor oggi le spiagge sono indicate nelle cartine con i nomi in codice durante l'invasione, può vistare cimiteri con croci bianche e stelle di David, addirittura le strade portano i nomi delle unità che combatterono.

11/04/14

Parigi val bene una messa | Perchè si dice

Sui libri di storia l'espressione "Parigi val bene una messa" viene sovente riportata ed è legata ad un episodio ben preciso. E' questa un'espressione entrata poi a far parte dei modi di dire, ma come molti adagi da me descritti adesso caduta in disuso. Vale la pena però, ricordarne l'origine.
Parigi val bene
una messa

Parigi val bene una messa, vale la pena sacrificarsi per ottenere uno scopo alto. Risale alla fine del '500 quando la Francia era devastata da una terribile guerra civile. Il conflitto è conosciuto come la guerra dei “tre Enrichi”: Enrico di Navarra alla guida degli Ugonotti che erano di religione protestante; Enrico di Guisa con la Santa Lega che era cattolica; Enrico III che era il re di Francia. Alla fine della sanguinosa guerra vinse Enrico di Navarra che abiurò il calvinismo per il cattolicesimo pur di conquistare Parigi, nella quale fu incoronato re nel 1594. Si dice che, prima di farsi cattolico, abbia pronunciato appunto la celebre frase “Parigi val bene una messa” perché disposto a rinunciare alla sua religione pur di conquistare il regno di Francia.

24/03/14

Roma | 24 marzo 1944 - 24 marzo 2014: settanta anni esatti dall'eccidio delle Fosse Ardeatine.

Settant’anni esatti dalla strage delle Fosse Ardeatine. Infatti il 24 marzo 1944, a Roma, venne perpetrato uno dei massacri più atroci e criminali non solo della Seconda Guerra Mondiale, ma di tutto il Novecento in Italia. Da sempre, infatti, sentiamo parlare delle Fosse Ardeatine come di un simbolo dell’assurdità della guerra, come una supremazia del male nella sua natura, che non si arresta neppure di fronte ai deboli e agli indifesi, anzi si accanisce proprio contro di loro. Furono 335 i morti nella strage delle Fosse Ardeatine: oggi tutti li ricordano, ma pochi, soprattutto tra i più giovani, sanno bene il perché. Perché l'eccidio delle “ Fosse Ardeatine”? A Roma, nelle vicinanze di via Ardeatina, le cave di tufo presenti nella zona settant’anni fa furono il teatro dell’esecuzione da parte dei generali nazisti dei 335 cittadini italiani, alcuni civili, altri militari. Un evento che ha reso quest’area uno dei monumenti nazionali, simbolo della Resistenza in Italia e soprattutto nella Capitale. Infatti Dopo l’8 settembre 1943, l’Italia era nel pieno della guerra civile e Roma, dichiarata città aperta nell’agosto dello stesso anno, era in balia dei raid nazisti, con i gruppi spontanei di partigiani a creare un’opposizione via via sempre più diffusa e organizzata alle calcagna dei tedeschi. LA STORIA.Per contrastare questa crescente ondata di terrore e terrorismo da parte delle truppe naziste, i nascenti gruppi partigiani si organizzarono per una rappresaglia il 23 marzo del 1944, cioè nel venticinquesimo anniversario della nascita dei Fasci di combattimento da parte di Benito Mussolini. Così, nella data stabilita, una bomba con 18 chilogrammi di esplosivo fece fatta scoppiare in via Rasella, nel centro di Roma, uccidendo ben 32 ufficiali tedeschi del battaglione “Bozen” sotto indicazione del noto antifascista Giorgio Amendola, abituato a vedere marciare i militari nazisti in quelle zone. LA REAZIONE TEDESCA. I nazisti organizzarono una ritorsione inaudita, uno dei crimini di guerra più feroci mai registrati in Europa: i marescialli hitleriani arrivarono alla conclusione che per ogni ufficiale rimasto vittima dell’attentato, sarebbero stati uccisi dieci italiani. La popolazione e i gruppi combattenti vennero tenuti all’oscuro fino all’ultimo: non fu intimato ai responsabili di consegnarsi per evitare azioni eclatanti, né vennero diramati avvertimenti pubblici. L’ordine di questa orribile esecuzione partì dal generale Kurt Mälzer, comandante militare in quel periodo a Roma e primo ad arrivare sul posto dopo lo scoppio della bomba partigiana, insieme al questore filofascista Caruso. A occuparsi delle operazioni, venne chiamato il colonnello delle SS Herbert Kappler, uno degli ufficiali più spietati, che aveva già legato il proprio nome a episodi cruenti in quei mesi difficili nella Capitale. Furono loro a intavolare le trattative con il Reich, da una parte, e la Repubblica di Salò, dall’altra, trovando il supporto delle autorità fasciste ancora insediate. LE VITTIME.Inizialmente, si pensò di ricorrere ai condannati a morte come vittime di questa strage predeterminata a scopo intimidatorio, dopo l’atto ostile compiuto dai partigiani. Poi, accortisi dell’insufficienza dei numeri tra coloro in attesa di pena capitale, la lista arrivò presto a comprendere ebrei, antifascisti, “noti comunisti”, militari complici dell’arresto di Mussolini il 25 luglio del 1943, e 50 detenuti dal carcere di Regina Coeli, alcuni indicati dai fascisti, altri presi sommariamente per far quadrare i conti, più sacerdoti, professori, partigiani, cittadini "colpevoli" per il loro essere antifascisti. LA STRAGE. Tra le 12 e le 20 del 24 marzo 1944, 335 persone furono trasportate alle cave di tufo in via Ardeatina e qui fucilate in 67 turni di esecuzioni,cinque alla volta, una vera e propria carneficina, con i racconti da pelle d’oca, tra montagne di cadaveri e soldati imprecisi a sparare che infieriscono sui corpi delle vittime. La lista delle vittime venne affidata al capitano Priebke, il quale si occupò personalmente di verificare che gli ordini fossero eseguiti. I RESPONSABILI. Kappler e Priebke,a distanza di anni uno dall’altro, furono condannati all’ergastolo, mentre il generale Albert Kesserling venne condannato a morte, condanna poi commutata nel carcere a vita. Priebke è morto pochi mesi fa, a Roma. La strage delle Fosse Ardeatine è stato un crimine di violenza inaudita, realizzato da un regime in decadenza che stava cercando di ribaltare con le atrocità la china di un conflitto che lo vedeva ormai battuto. Solo una scarsa conoscenza dei fatti, o una rilettura fugace e opportunistica, può affermare il contrario. Anche se, negli ultimi anni, di opinioni strambe che hanno trovato cittadinanza in Italia, se ne sono sentite, purtroppo, parecchie.

26/02/14

Terroristi Boko Haram massacrano 59 ragazzi

Gli orrori della guerra: Massacrati 59 studenti al nord della Nigeria. Commandi miliziani islamici irrompono di notte in un collegio di studenti. Il commando ha sgozzato alcuni ragazzi e ha sparato ad altri, prima di appiccare l'incendio.


Kano (Nigeria)- Gli integralisti islamici nigeriani hanno massacrato 59 morti studenti di un collegio nel nord-est della Nigeria. Lo hanno riferito fonti ospedaliere. Le vittime sono morte per colpi d'arma da fuoco o arse tra le fiamme appiccate all'edificio, che è stato completamente raso al suolo. Il collegio di Buni Yadi accoglie ragazzi tra gli 11 e i 18 anni di età nello stato nord-orientale di Yobe, a 60 chilometri dalla capitale Damaturu. L'attacco è avvenuto alle due di notte mentre gli studenti stavano dormendo.
Secondo alcuni testimoni, il commando ha sgozzato alcuni ragazzi e ha sparato ad altri, prima di appiccare l'incendio. Tutti gli studenti morti sono maschi.

Quello di Yobe e' uno dei tre Stati nord-orientali della Nigeria in cui a maggio è stato imposto lo stato d'emergenza per favorire un'offensiva dei militari contro i guerriglieri di Boko Haram. L'attacco non è stato rivendicato ma le scuole sono uno degli obiettivi preferiti dai miliziani islamici che da quattro anni e mezzo insanguinano la Nigeria con una rivolta che ha fatto migliaia di morti. Proprio nella città di Yobe a settembre erano stati uccisi 40 studenti in un centro per la formazione agraria.     fonte (AGI)

07/02/14

Caritas denuncia: di nuovo sull'orlo di una guerra civile nel Sud Sudan

Non c'è pace per quella gente martoriata da guerre. Dopo aver raggiunto l'indipendenza, il Sud Sudanè di nuovo in una guerra civile. La chiesa ha fatto un appello perchè smettano le ostilità, ma la Caritas denuncia uccisioni e violenze. 


Dopo soli 2 anni dalla sua indipendenza, il Sud Sudan e' nuovamente sull'orlo di una guerra civile. Dopo gli scontri nella notte del 15 dicembre, nella capitale Giuba, si sono sentiti risuonare colpi di armi da fuoco e bombe, e si sono verificati uccisioni indiscriminate di civili inermi in diversi quartieri della citta'. Lo si legge in un comunicato della Caritas italiana. Da allora, in poco piu' di un mese, il conflitto - prosegue la nota - ha raggiunto dimensioni catastrofiche. Agli inizi di febbraio si contano oltre 10.000 morti e circa 750.000 sfollati (il 10% dell'intera popolazione).
Sud Sudan



I vescovi sud sudanesi, insieme ai rappresentanti delle altre Chiese, hanno lanciato un forte appello alla pace: «Interpellati dal messaggio imperativo del Vangelo per la pace e la giustizia, chiediamo un'immediata e incondizionata cessazione delle ostilità in ogni parte del Paese: crediamo che il dialogo sia il migliore e l'unico giustificato mezzo per risolvere le controversie e le divisioni tra le parti. La violenza non è mai un'opzione». Anche papa Francesco, all'inizio di gennaio, aveva pronunciato un appello alla pace nel Paese africano. Nel frattempo però, conclude la Caritas, i combattimenti continuano, con un aumento preoccupante delle uccisioni su base etnica, in una spirale di violenza senza fine. E accanto al rumore delle armi, sempre più assordante, si sente oggi il grido della popolazione che chiede aiuto.

29/01/14

L'ultima cosa che un bambino siriano di 3 anni ha detto prima di morire: "Io sto andando da Dio a dirgli tutto"

L'immagine di questo bambino siriano, si aggira su internet accompagnata dalla frase che avrebbe detto il bambino di tre anni prima di morire: "Io sto andando da Dio a dirgli tutto". Ed è inquietante.


E 'impossibile verificare la veridicità della frase detta dal bambino, ma l'immagine racconta una storia di dolore e la sofferenza che esiste in Siria in questo momento. In molti dovrebbero dire che, il presidente Bashar al-Assad è un killer spietato. Ma sarebbe una mezza verità, perchè ci sono responsabilità di altre nazioni in questa assurda guerra.

Aggiungi didascalia
La guerra ha causato la morte di decine di migliaia di persone e lo sfollamento di oltre 1 milione di siriani che ora vivono nei campi profughi. Questo è il risultato inevitabile di una guerra segreta combattuta dagli Stati Uniti, Israele e altri paesi sunniti come il Qatar e l'Arabia Saudita. Gli interessi nel far decadere il dittatore siriano al-Assad sono tutti di geo-politica. Se ciò avvenisse, si neutralizzerebbe l'influenza iraniana nella regione. Il dittatore ha agito così male che al-Qaeda sta combattendo dalla stessa parte del governo degli Stati Uniti e Bashar al-Assad e il suo governo stanno combattendo al-Qaeda.
I siriani, in questa massiccia guerra globale, sono tutti vittime degli interessi segreti di questi stati. Questo genera confusione a tal punto che non si sa se le armi chimiche utilizzate sulla Siria siano il risultato di al-Qaeda o del governo siriano. Quando si tratta di questioni di intelligence e propaganda  è molto difficile discernere la verità dalla finzione. Ma nessuno può negare che la Siria è stata un paese molto stabile fino a che non si sono spianate le armi. La giustificazione degli stati a queste guerre è: "Stiamo portando la democrazia nel mondo", e questo è la formula del neoimperialismo.

Per donare al Fondo di Emergenza siriano www.justgiving.com/ SyriaEmergencyAppeal

18/01/14

Deceduto l’ultimo soldato giapponese arresosi nel 1974.

Hiroo Onoda, il leggendario ultimo soldato dell'Esercito imperiale giapponese arresosi soltanto nel 1974, è morto all'età di 91 anni per un infarto in un ospedale di Tokyo dove era stato ricoverato dal 6 gennaio dopo un'insufficienza cardiaca. Onoda, ex ufficiale dell’intelligence, continuò a combattere per decenni sull’isola filippina di Lubang, dove era stato distaccato nel 1944, malgrado la resa del Giappone nella Seconda guerra mondiale.

Hiroo Onoda
Onoda era un membro della classe di comando Futamata Bunko, addestrato come guerrigliero. Nel Natale del 1944 fu inviato nell'isola filippina di Lubang con il compito, insieme con i soldati già ivi presenti, di ostacolare l'avanzata nemica. Aveva ricevuto l'ordine di non arrendersi, a costo della sua stessa vita. Dopo essere sfuggito all’attacco statunitense del 28 febbraio 1945, Onoda ed altri tre commilitoni si nascosero nella giungla, decisi a frenare l’avanzata del nemico ad ogni costo. Non riuscivano a credere che la loro Patria, il grande Giappone, si fosse potuto arrendere. Così nonostante fossero arrivate notizie della fine della guerra, essi non gli diedero peso, e reputarono falsi anche alcuni volantini e foto di famiglia lanciati da un aereo per convincerli a cessare le ostilità. Onoda e i suoi compagni rimasero quindi sull'isola continuando la "missione" e combattendo contro gli abitanti dell'isola (non giapponesi), nascosti nella giungla. I tre vissero di furti di viveri e vestiti dei cittadini filippini. Dopo che un compagno si arrese e gli altri due rimasero uccisi, Onoda continuò da solo la “missione” per quasi trent’anni. Il 20 febbraio 1974, dopo giorni di ricerche, il giapponese Norio Suzuki ritrovò Onoda e fece ritorno in Giappone con le foto del militare e convincendo l'ufficiale diretto superiore di Onoda, il Magg. Taniguchi, a recarsi sull'isola per convincerlo ad arrendersi. Onoda si arrese, riconsegnando la divisa, la spada, il suo fucile ancora perfettamente funzionante, 500 munizioni e diverse granate. Ma al suo rientro in patria la celebrità lo sorprese negativamente; i valori antichi del Giappone secondo i quali aveva vissuto e per i quali aveva combattuto una personale guerra, ai suoi occhi erano scomparsi. Onoda emigrò in Brasile con il fratello Tishro e si sposò nel 1976.

17/01/14

Vivo il sergente dell'Esercito USA prigioniero dei Taleban da cinque anni

Fu catturato nel giugno del 2009, al termine di un turno di guardia. Trattative discontinue con i taleban, trascinano a lungo la sua liberazione. Unico prigioniero di guerra americano, non si sapeva nulla di lui da tre anni. Finalmente un video dove lo ritrae vivo, riapre i negoziati per portarlo a casa.

Il sergente dell’Esercito degli Stati Uniti, Bowe Bergdahl, prigioniero dei taleban, fucatturato nel giugno del 2009, al termine di un turno di guardia in un remoto avamposto della provincia di Paktika, nel sud-est dell’Afghanistan. Ad oggi è l’unico prigioniero di guerra americano in tutto il Pianeta, e di lui non si avevano immagini da circa tre anni. Sino a quando, pochi giorni fa, le autorità militari americane sono venute in possesso di un video le cui immagini confermano che il sergente è ancora vivo. Dal filmato, realizzato sembra il 14 dicembre 2013, Bergdahl appare in precarie condizioni di salute a causa della sua lunga detenzione nelle mani del gruppo Haqqani, ovvero gli affiliati dei taleban in Pakistran, ma non è chiaro dove sia il luogo di detenzione. «La vicenda del sergente Bowe Bergdahl si è trascinata troppo a lungo e noi continuiamo a lavorare alacremente per giungere a una sua liberazione in tempi rapidi», ha spiegato un portavoce del Pentagono.
Nel maggio 2012, il governo americano aveva confermato pubblicamente di aver avviato un negoziato con i taleban per la liberazione di Bergdahl, ma da allora le trattative sono state assai discontinue e non hanno portato a nessun risultato di fatto.

Bowe Bergdahl, 28 anni, in un filmato con
uno dei carcerieri del gruppo terroristico Haqqani.
Il sergente Usa è stato catturato al termine di un turno di
guardia nella provincia di Paktika
Soprattutto per la preoccupazione da parte americana che consegnare prigionieri in cambio della liberazione del sergente avrebbe voluto dire permettere loro di tornare a combattere contro le forze alleate. Poi il cambio di rotta, circa un anno fa, quando la Casa Bianca ha annunciato che era disposta a inviare cinque detenuti in Qatar, dove era stata aperta un rappresentanza diplomatica taleban, in cambio di Bergdahl. Non è chiaro quali sviluppi abbia avuto quell’annuncio, né se il video del sergente giunto in questi giorni sia un segnale di svolta. «Non possiamo fornire informazioni dettagliate sullo stato della trattativa o su quali passi stiamo compiendo. - prosegue il portavoce della Difesa Usa - Ma è fuori discussione che ogni giorni ci adoperiamo, con ogni strumento e mezzo militare di intelligence o diplomatico, affinché il sergente Bergdahl faccia ritorno a casa sano e salvo». Chi è sempre stato convinto di poter riabbracciare il militare, è la sua famiglia originaria dell’Idaho. «Come abbiamo fatto tante volte in questi quattro anni e mezzo, chiediamo ai rapitori di rilasciare Bowe sano e salvo così che possa riunirsi ai suoi genitori», spiegano in una nota. Lo scorso anno i Bergdahl avevano ricevuto una lettera da parte del figlio – che al momento del rapimento aveva 23 anni – attraverso la mediazione della Croce Rossa. E proprio al figlio si rivolgono in un nuovo accorato appello: «Bowe, se sei in grado di sentire questo messaggio, ti chiediamo di continuare ad essere forte e sopportare ancora per un po’ questa situazione. La tua capacità di resistere ti porterà al traguardo».                                                  fonte La Stampa.it

09/01/14

La guerra del petrolio | 200mila in fuga

Il petrolio continua ad essere oggetto di contese fra popoli assetati di potere, per ottenere il quale si macchiano di atrocità, mettendo in fuga popolazioni intere.
È allarme umanitario a Bentiu, il capoluogo dello stato sudsudanese di Unity, dove sono concentrati gran parte dei pozzi petroliferi del Paese dove la produzione di greggio è crollata da 1,5 milioni di barili a 150 mila, le truppe governative fedeli al presidente Salva Kiir Mayardit hanno concentrato un grosso distaccamento, sostenuto da milizie dinka, l’etnia del presidente per riprendere i pozzi essenziali per la sopravvivenza dello Stato Bentiu è stata conquistata due settimane fa dalla unità dell’esercito passate con l’ex vicepresidente ribelle Riek Machar, sostenuto dall’etnia nuer.

Machar controlla gran parte del nord-est del Paese ed è arroccato nel capoluogo del Jonglei, Bor, a maggioranza nuer Ieri è arrivato nella capitale Juba il presidente del Nord Sudan, Omar al Bashir, per tentare una mediazione. I pozzi di petrolio sono situati vicino al confine e il greggio viene trasportato attraverso un oleodotto che attraversa il Nord Sudan e sbocca sul Mar Rosso.

24/12/13

Per grazia ricevuta! Dopo 60 anni dalla sua scomparsa Turing viene perdonato dalla Regina Elisabetta II.

Sono dovuti trascorrere ben 60 anni dal suo suicidio affinche la regina Elisabetta concedesse formalmente il suo «perdonato» ad Alan Turing, il genio matematico che, tra le altre sue compiute, durante la II Guerra Mondiale a Bletchley Park, ebbe il merito di riuscire a decodificare l'inpenetrabile codice delle macchine Enigma, allora in uso dalle forze armate tedesche. Turing si tolse la vita quando correva l anno1954, esattamente dopo la fine dell ultimo conflitto mondiale perché era omosessuale. Due anni prima era stato condannato - all'epoca essere gay era un reato - e sottoposto a castrazione chimica.

Il matematico, nato a Londra nel 1912, morì a 41 anni. Per il suo lavoro Turing è considerato, oltre che un genio matematico, il padre dell'informatica e della crittografia moderna. I suoi successi contribuirono a modificare il corso della guerra. Ancora oggetto di polemiche le cause della sua morte: secondo i media britannici, Alan Turing «è stato probabilmente avvelenato con il cianuro, mentre la tesi del suicidio non è mai stata provata».
Alain Turing
La grazia è stata accolta dalla Regina Elisabetta II su richiesta del ministro della Giustizia Chris Grayling, che ha parlato di un «uomo eccezionale con uno spirito brillante»: «La sua vita più tardi è stata oscurata dalla condanna per omosessualità, condanna che consideriamo oggi come ingiusta e discriminatoria e che è ormai annullata», ha dichiarato Grayling.

Già nel 2009, l'allora primo ministro Gordon Brown aveva presentato delle scuse postume, riconoscendo che il grande matematico e logico era stato trattato in modo orribile. Nel 2012, anno del centenario dalla nascita di Turing, undici scienziati britannici, tra cui Stephen Hawking, avevano chiesto l'annullamento della condanna del «matematico più brillante dell'epoca moderna».

22/12/13

Perchè si dice "essere il cavallo di battaglia"?

Dove ci sono i cavalli ci sono anche io, il cavallo è sempre stata la mia passione, e tutto del cavallo mi interessa. Perciò questo adagio non può che far parte dei miei modi di dire.
Essere il cavallo di battaglia, si dice per indicare qualcosa che consente di fare sfoggio del proprio talento, come il pezzo preferito di un cantante, la recita di un attore ecc.
Il Frisone il cavallo da battaglia per eccellenza

I cavalli destinati a portare i cavalieri in guerra, quando ancora si combatteva con spade e corazze, erano particolarmente robusti a causa dell'enorme fatica a cui erano sottoposti. Perciò, altre ad una alimentazione speciale, erano anche soggetti ad un particolare addestramento, che non era necessario per la caccia o altro uso dell'animale. E in genere, il cavallo cui era demandato questo compito, dalla cui bravura e robustezza spesso dipendeva la vita del cavaliere, era il più forte, il più intelligente, il preferito della scuderia. Da qui anche l'epressione: Essere il pezzo forte.

26/11/13

Il calendario delle Fiamme Gialle di quest'anno: la Gdf nella guerra di liberazione

Anche quest'anno viene realizzato il calendario della Guardia di Finanza, ed il soggetto scelto oltre che ad essere impreziosito da una prefazione del ministro dell'economia Fabrizio Saccomanni e dello stesso Comandante generale delle Guardia di Finanze, Saverio Capolupo, è: le Fiamme Gialle nella guerra di liberazione!

La presentazione dello storico quanto atteso calendario e avvenuta a Roma, dove ormai sin dal lontano 1931 si svolhe con immutato interesse e fierezza, e come gia detto quello di quest'anno è dedicato all'attività della Guardia di Finanza nella Guerra di liberazione e nella fase di ricostruzione post-bellica ("La Guardia di Finanza per l'Italia libera - 1943-1954").

Calendario Gdf 2013
Come tiene a precisare lo stesso ministro dell'Economia nella sua prefazione, la lotta all'evasione giunte già subito dopo la guerra di liberazione era «diventato un obiettivo prioritario».

E, enfatizza ancora Saccomanni, «oggi come ieri, è necessario che quest'azione di tutela della sicurezza economico-finanziaria, cui la Guardia di Finanza contribuisce in termini rilevanti, sia strumentale alla ricostruzione di un rapporto di fiducia tra lo Stato e i cittadini, incardinato sulla consapevolezza del valore morale e sociale dell'obbligo tributario».

Proprio a quei valori espressi dalle Fiamme Gialle nella guerra di liberazione e nella fase immediatamente successiva di ricostruzione post-bellica e soprattutto «di tutela dell'ordine economico» si deve ispirare ancora oggi la Guardia di Finanza, ribadisce Capolupo. E questo, secondo il il Comandante generale delle Fiamme Gialle, «per combattere, in maniera sempre più efficace, le minacce alla sicurezza economico finanziaria dello Stato».
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