Il-Trafiletto
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19/07/14

Come si fa...? | Perchè...? | Di che colore è...?

Camminare e mantenere
s fuoco la vista
COME SI FA A MANTENERE LA VISTA A FUOCO QUANDO SI CAMMINA?
Gli occhi sono collegati agli organi di senso dell'orecchio interno e ai recettori di stiramento nei muscoli del collo attraverso una serie di nervi. Quando muoviamo la testa, gli occhi compensano automaticamente il movimento spostando il fuoco nella direzione opposta, il che si verifica anche in piena oscurità. Questo cosiddetto "riflesso vestibolo-oculare" contribuisce a mantenere stabile il campo visivo. Vi è poi il cosiddetto "riflesso optocinetico", che porta gli occhi a seguire un soggetto in movimento per un po', per poi scattare di nuovo al centro.

Annoiarsi, sensazione spiacevole
PERCHE' CI ANNOIAMO? 
Come la fame, la sete e la solitudine, la noia è una sensazione sgradevole che ci spinge a modificare il nostro comportamento: la selezione naturale ha favorito gli individui con la capacità di sentirsi annoiati perché sono più propensi a scoprire o creare cose che migliorano le loro probabilità di sopravvivenza, o a cercare un nuovo partner, diffondendo così in maniera più copiosa i loro geni. La contentezza porta alla compiacenza, e questa è una strategia evolutiva pericolosa.

Il colore di uno specchio
DI CHE COLORE E' UNO SPECCHIO?
Nella luce bianca, che comprende le lunghezze d'onda dello spettro visibile, il colore di un oggetto è dettato dalle lunghezze d'onda che gli atomi della sua superficie non riescono ad assorbire. Poiché uno specchio perfetto riflette tutti i colori che compongono la luce bianca, allora essere anch'esso bianco. Ciò detto, bisogna considerare però che gli specchi reali non sono perfetti, e gli atomi sulla loro superficie danno all'immagine riflessa una leggera sfumatura verde, poiché gli atomi nel vetro riflettono di più la luce verde rispetto a qualsiasi altro colore.(science)


08/07/14

Frutta e verdura | Il cibo del futuro

Per continuare a consumarne cinque porzioni al giorno, dovremo ricorrere a nuove tecnologie. Nella classifica globale degli alimenti base, la patata occupa il quarto posto (dopo il grano, il frumento e il riso), con una produzione annua di circa 314 milioni di tonnellate. 

Dal punto di vista della resa, però, l'umile tubero stravince: il quantitativo prodotto in tonnellate per ettaro è circa sei volte superiore al frumento. Più della metà del raccolto mondiale di patate proviene dai paesi emergenti, e l'ONU sta perciò promuovendo la patata come specie più efficiente in grado di migliorare la sicurezza alimentare globale.

Vegetali OGM
C'è, però, un ostacolo importante: la peronospora. Questo fungo (Phytophthora infestans) continua tuttora a decimare le colture. L'anno scorso, si stima che fino al 20 per cento del raccolto europeo di patate sia andato perduto a causa del microorganismo, e molti produttori sono stati costretti a irrorare i campi di fungicidi anche 15-20 volte, al costo di circa 600 euro all'ettaro. Gli scienziati del laboratorio Sainsbury, in Gran Bretagna, stanno lavorando a una soluzione più economica e potenzialmente più sostenibile. In appezzamenti recintati e protetti da sistemi d'allarme vicino a Norwich, stanno testando patate geneticamente modificate e resistenti alla peronospora. Il direttore scientifico, Jonathan Jones, paragona gli OGM alle app di un iPhone.

"Il telefono è sempre lo stesso, ma con qualche funzionalità in più", dice. Dopo aver esaminato centinaia di varietà, l'equipe di Jones ha isolato i geni che inducono la resistenza alla Phytophthora infestans in due patate selvatiche non commestibili, provenienti dal Sud America. I primi risultati suggeriscono che, introducendo questi geni in una patata Désiréé, si potrebbe rendere questa varietà inattaccabile dalla peronospora, senza dover più ricorrere a fungicidi. La modificazione genetica potrebbe aiutare a ottenere colture non soltanto più resistenti, ma anche più sane. Cathie Martin del John Innes Centre di Norwich ha sviluppato una varietà di pomodori viola con livelli elevati di pigmenti, le antocianine, sia nella polpa sia nella buccia.

Queste sostanze, che solitamente si trovano nei frutti di bosco come more e mirtilli, proteggono contro certe forme di cancro, di patologie cardiovascolari e di demenza.(science)

19/03/14

Il nostro genoma influenzato dall'ambiente | Ecco come condiziona le nostre esperienze l'ambiente che ci circonda.

Il nostro genoma influenzato dall'ambiente | Ecco come condiziona le nostre esperienze l'ambiente che ci circonda.
Il rapporto tra natura e cultura o, se preferite, tra ereditarietà e ambiente è una delle più controverse questioni della filosofia e della ricerca scientifica. Ma un importante contributo a tale controversia, pare arrivare da un settore di ricerca parecchio interessante: l'epigenomica.

In base alla visione classica, il nostro genoma è una sorta di codice fisso, che può cambiare da una generazione all'altra, ma che per il resto ha un modus operandi costante, riproducendosi uguale a se stesso. Nella realtà le cose non si svolgono in maniera così lineare, infatti il nostro genoma è circondato da meccanismi aggiuntivi, l'epigenoma per l'appunto, che provvedono ad attivare , ovvero sia "esprimere"  questo o quell'altro gene in questa o quella cellula in base ad alcune fasi della vita, ma prevalentemente in base a degli stimoli esterni, ambientali e in senso lato, anche "culturali".
Genoma influenzato dall'ambiente

Insomma l'ambiente che ci plasma, il nostro Dna subisce mutazioni nei meccanismi di attivazione e spesso questi mutamenti sono potenzialmente trasmissibili alle generazioni successive. Le esperienze che possono indurre mutazioni epigenetiche sono molte, relative a quello che mangiamo, quello che respiriamo, alle attività fisiche e a situazioni psicologiche, dall'apprendimento allo stress. Siamo in presenza di una rivoluzione concettuale, per la quale un codice già noto, quello genetico, risulta essere influenzato da un codice di cui sapevamo poco, quello epigenetico.

Secondo Valerio Orlando biologo della Fondazione Santa Lucia di Roma, ora in forze al King Abdullah University of Science and Technology, a Thuwal, in Arabia Saudita, «nell'ambito della conoscenza del genoma l'epigenomica rappresenta una novità: si prende atto del fatto che accanto al genoma c'è anche l'epigenoma, un complesso di strutture accessorie che ne regolano la funzionalità, si tratta di componenti strutturali proteici e chimici dei cromosomi essenziali per la regolazione cellulare. L'importanza di questi componenti è che sono essi a consentire al genoma di comunicare con l'ambiente. L'epigenoma è quel complesso di fattori strutturali che registrano l'esperienza biologica in tutte le fasi della vita e attraverso di essi le cellule trasmettono la base della loro identità alle cellule figlie e in alcuni casi alle generazioni successive».

È il caso dell'ambiente prenatale e di quello post-natale. «È noto ad esempio che le abitudini alimentari e comportamentali della madre la sua esperienza biologica, gli ormoni secreti dal suo organismo, ciò che mangia, le situazioni stressanti che si trova a vivere, – possono influire sul feto e sull'espressione dei suoi geni, continua Orlando, tra i relatori del Brain Forum che si chiude oggi a Milano. Inoltre lo stress nelle primissime fasi della vita e la carenza di cure materne possono modificare determinate regioni regolative dei geni e relativi circuiti cerebrali per cui la progenie finirà con lo sviluppare un fenotipo depressivo/aggressivo.

In alcuni casi tali caratteristiche possono essere ereditate, e la predisposizione si combina poi con l'ambiente sociale e familiare. Volendo fare una metafora, potremmo dire che l'epigenoma rappresenta un'immagine chimica della realtà, un riflesso dell'ambiente esterno come viene incontrato dalle cellule e dall'organismo». Varie sono le connessioni tra epigenoma e comportamento: la ricerca ha riscontrato correlazioni tra determinate caratteristiche epigenetiche e la tendenza al suicidio, la schizofrenia, l'alcolismo, la suscettibilità individuale a stupefacenti come la cocaina, l'azione di alcuni tipi di psicofarmaci. Per quanto riguarda il rapporto tra epigenetica e cervello umano, possiamo dire che molte funzioni cerebrali sono accompagnate da cambiamenti nell'espressione genica a livello cellulare, e che alcuni di questi meccanismi sembrano essere coinvolti nella memoria a lungo termine.

C'è da dire che gli studi sugli esseri umani sono pochi, mentre non mancano quelli sugli animali, soprattutto ratti e topi. E a proposito di animali Orlando fa un interessante esempio relativo agli insetti sociali: «Nel caso delle api, l'esposizione delle larve alla pappa reale ne influenza pesantemente l'espressione genica, determinandone il destino, ossia il ruolo sociale che ricopriranno, facendone operai o api regine». Forse è un po' troppo presto per mettersi a cercare le basi epigenetiche dei gusti artistici e delle preferenze individuali – soprattutto di quelle più squisitamente psicologiche, come i "colori preferiti" e così via. È però senz'altro chiaro che alcune scelte marcatamente culturali per fare un esempio, quella di bere in età adulta il latte di altre specie animali può influenzare le nostre caratteristiche epigenetiche nella fattispecie la produzione dell'enzima lattasi e che tali caratteristiche possono essere trasmesse.

Per quanto riguarda la ricerca, l'Human Epigenome Project, un progetto internazionale sostenuto dal britannico Wellcome Trust Sanger Institute, l'azienda biotech Usa-tedesca Epigenomics Ag e il francese Centre National de Génotypage mira a identificare, catalogare e interpretare i meccanismi che compongono l'epigenoma, accumulando conoscenze utili nella lotta ai tumori. Epigen è invece un'iniziativa multidisciplinare, promossa dal Miur e dal Cnr, che riunisce 70 ricercatori con l'obiettivo di comprendere come i meccanismi epigenetici regolino i processi biologici, determinino la variazione fenotipica e contribuiscano allo sviluppo di numerose patologie.

15/03/14

Primitivi accoppiamenti, amori fugaci, Dna nuovo

Cosa non si scopre a proposito dei nostri antenati! Ci fu un tempo in cui Homo sapiens sposandosi dall'Africa incontrò altre due specie di ominidi mescolarono allegramente il loro DNA con gli altri.  E questa promiscuità a cosa ha portato? Gli studiosi hanno fatto scoperte interessanti in merito. L'Homo sapiens si concesse storie d'amore sia con l'uomo di Neanderthal e che con l'uomo di Denisova.
Si potrebbero definire “storie fugaci, di amori rapaci”, forse un ratto delle Sabine della preistoria. Usciti dall'Africa, circa 65.000 anni fa, i nostri antenati Homo sapiens incontrarono almeno altre due specie dello stesso genere. Nonostante quello che pensano i teorici della “purezza della razza”, i sapiens non persero occasione per accoppiarsi con i veri padroni del territorio – prima di conquistare tutto il mondo.
Uomini primitivi

Non furono certo episodi isolati, se una parte dei geni delle altre specie è ancora visibile nel nostro genoma. Promiscui. Gli altri uomini con cui i nostri bis-bis nonni hanno avuto storie d'amore sono il nostro primo cugino, l'uomo di Neanderthal e l'uomo di Denisova. Se per il Neanderthal ci sono parecchi scheletri, per l'uomo di Denisova (che prende il nome dalla grotta nell'Asia centro occidentale dove sono stati trovati i fossili) gli unici frammenti trovati sono la falange di un dito e un dente: nonostante le difficoltà, è stato possibile scrutare all'interno del patrimonio genetico di entrambe le specie e confrontarle con quello dell'uomo moderno. In particolare un folto gruppo di studiosi proveniente da tutto il mondo ha cercato di capire se gli amori dei tre uomini avessero lasciato nella nostra specie qualche pezzetto utile alla sopravvivenza. E hanno studiato in particolare un gruppo di geni chiamato Hla (Human leukocyte antigen) che ha il compito importantissimo di creare proteine che riconoscono e distruggono i germi. L'analisi ha portato a più di una sorpresa: per esempio che una variante di uno di questi geni, HLA-B*73, è rara nell'Africa attuale ma presente nelle popolazioni dell'Asia occidentale (proprio dove si pensa ci siano statigli incontri di uomini e denisoviani). Un altro gene, che si chiama HLA-A*11, rappresenta il 64% delle varianti in Asia orientale e Oceania. Negli europei si trovano invece pezzetti di patrimonio genetico dei neanderthaliani, perché è proprio in Europa e in Asia orientale che le due specie si sono sono “incontrate”. Cosa ne deducono i genetisti? Che gli accoppiamenti con neanderthaliani e denisoviani hanno introdotto nel nostro Dna geni diversi da quelli presenti in Africa, che ci hanno aiutato a combattere i nuovi parassiti che abbiamo incontrato uscendo dalla nostra culla.

13/03/14

Controllo dei geni | Scoperta la seconda parte di codice del Dna!

Controllo dei geni. Scoperta la seconda parte di codice del Dna!
La scoperta riguarda il fatto che il Dna, contiene un secondo codice che permette il controllo dei geni, fino ad oggi rimasto sconosciuto.

A intercettarlo sono stati i ricercatori dell'Università di Washington, che grazie alle esperienze di uno studio pubblicato su Science hanno scoperto che questo secondo codice non è composto da istruzioni che vengono utilizzate per la produzione delle proteine, cosa che viene svolta dal codice genetico conosciuto fino ad oggi, ma bensi informazioni che indicano alla cellula come devono essere controllati i geni.

Dai dati ottenuti fin'ora sembrerebbe che questo controllo dia una mano notevole a stabilizzare alcune caratteristiche positive delle proteine e il modo in cui sono fatte. Fin'ora questo secondo codice non era stato identificato in quanto che è totalmente sovrapposto al primo soltanto che quest'ultimo si fonda sui cosiddetti codoni - formati da 3 “mattoncini” di Dna consecutivi - ciascuno dei quali corrisponde ad un aminoacido.
Controllo dei geni

Gli autori di questo studio, guidati da John Stamatoyannopoulos, hanno scoperto che alcuni codoni - detti “duoni” - possono avere anche un altro significato che serve a controllare i geni. “Per oltre 40 anni abbiamo dato per scontato che i cambiamenti del Dna che influenzano il codice genetico avessero conseguenze solo su come sono fatte le proteine – ha spiegato Stamatoyannopoulos.
Ora sappiamo che a questo assunto di base sulla lettura del genoma umano mancava metà della fotografia. Il fatto che il codice genetico possa scrivere contemporaneamente due tipi di informazione significa che molti cambiamenti nel Dna che risultano alterare la sequenza delle proteine potrebbero in realtà causare delle malattie alterando i programmi di controllo dei geni o anche entrambi i meccanismi contemporaneamente”.

28/11/13

Sindrome di Hunter, nuove scoperte genetiche


La sindrome di Hunter è una rara malattia metabolica ereditaria, i geni che controllano i ritmi circadiani - le funzioni biologiche ed i cicli comportamentali che variano ritmicamente nell’arco delle 24 ore - sono alterati. La Sindrome di Hunter, chiamata anche mucopolisaccaridosi di tipo 2, è una rara malattia genetica da accumulo lisosomiale, ad ereditarietà recessiva e legata al cromosoma X, causata da una mutazione del gene IDS che risulta nel deficit dell'enzima iduronato 2 sulfatasi. L'enzima è coinvolto nel metabolismo dei glicosamminoglicani e la sua assenza provoca l'accumulo di dermatan solfato e eparan solfato nei liposomi. I sintomi variano da forme più lievi a forme gravi e comprendono anomalie alle ossa e alle articolazioni, dimorfismi facciali, difetti cardiaci e respiratori e talvolta difficoltà di apprendimento.
Sindrome di Hunter
 È colpa dei geni denominati “clock”, per cui la loro funzione è deregolata dall’accumulo tossico di sostanze che, a causa della malattia, non possono essere correttamente smaltite. I geni clock sono quindi espressi in maniera anomala e questo porta le cellule a perdere il ritmo che regola la proliferazione, la riparazione dei danni al DNA, la risposta infiammatoria e i processi legati all'invecchiamento.
È questa la scoperta dei ricercatori del Dipartimento di Scienze Mediche della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Foggia), coordinati dal Dr. Gianluigi Mazzoccoli e dal Dr. Maurizio Scarpa, pubblicata recentemente su BMC Medical Medical Genomics.
“Queste malattie genetiche causate da accumulo di sostanze tossiche a livello cellulare, destabilizzano il nostro orologio circadiano, che regola, ad esempio, il ritmo sonno-veglia. È vero infatti - spiega , responsabile del coordinamento malattie rare presso l’IRCS Casa Sollievo della Sofferenza nonché Docente del Dipartimento di Pediatria Università di Padova, a Osservatorio Malattie Rare - che i bambini affetti da questa rara patologia soffrono di iperattività e alterazioni del comportamento, attribuibili proprio a questo fenomeno. Questo avvalla la pratica in uso di somministrare ai pazienti melatonina, principale regolatore dei ritmi del sonno”.
“Questa scoperta, effettuata grazie alla stretta collaborazione con il Dottor Mazzoccoli, è importante per almeno due motivi. La prima è che l’espressione scorretta dei geni clock è un indicatore di malattia e ci permette di capire che la Sindrome di Hunter è una patologia molto più complessa di quello che sembra. La seconda è legata alle possibilità terapeutiche”.
“Abbiamo scoperto – continua Maurizio Scarpa – che in seguito alla somministrazione della terapia enzimatica sostitutiva (ERT) l’espressione dei geni clock e dei geni da essi controllati tende a migliorare, anche se temporaneamente, in relazione alla durata di azione dell’enzima. Anche se per ora abbiamo testato questa dinamica unicamente a livello cellulare, molto si sta facendo per offrire ai pazienti una terapia che possa agire anche a livello tissutale, ed in particolare a livello cerebrale, andando a riequilibrare l’espressione genica. La sperimentazione sulla ERT con infusione intratecale è oggi in corso, quindi si spera che presto i pazienti potranno beneficiarne”.


Il team italiano ha analizzato l'espressione nel tempo di CG (Geni Clock) e CCG  (Geni Clock Controllati) in fibroblasti di pazienti affetti da sindrome di Hunter, confrontandoli con controlli di individui sani e valutandone i cambiamenti in seguito a somministrazione dell'enzima iduronato 2 sulfatasi.
Attraverso tecniche molecolari di analisi del trascrittoma, cioè dell'insieme di tutti i trascritti presenti in una cellula in un dato momento, i ricercatori hanno dimostrato che numerosi CG e CCG sono espressi in maniera anomala nei pazienti affetti dalla sindrome e che il pattern di espressione cambia in maniera significativa ma temporanea in seguito a somministrazione di enzima sostitutivo.

29/10/13

Alzheimer: trovati altri geni con un importante ruolo nella malattia

Una ricerca comparsa in una rivista scientifica 'Nature genetics', realizzata dai principali consorzi europei e americani del settore e col contributo dell'Università di Firenze, da come risultato la scoperta di undici geni associati alla malattia di Alzheimer.

Alzheimer.
 La strategia dello studio che ha coinvolto i soggetti in più repliche, ha portato a evidenziare risultati significativi a livello di geni, alcuni dei quali consentono di approfondire l’importanza di meccanismi della malattia già noti (associati alle proteine amiloide e tau), mentre altri sottolineano la rilevanza di nuove aree del cervello di potenziale interesse per la comprensione delle cause della malattia.
Alcuni di questi nuovi geni sono infatti coinvolti nel funzionamento dell’ippocampo, la prima area cerebrale che si altera a causa dell’Alzheimer, e nelle attività di comunicazione tra i neuroni. «Si tratta, in tutti i casi, di meccanismi - ha spiegato Nacmias - che hanno un ruolo importante nei processi che possono portare a neurodegenerazione. Ulteriori studi sono necessari per caratterizzare queste varianti dal punto di vista funzionale, per chiarire la loro associazione con il rischio di malattia e per definire meglio il loro ruolo nella fisiopatologia dell’Alzheimer».
«Questi nuovi dati forniscono nuovo impulso alla ricerca - ha commentato Sorbi - suggerendo indicazioni anche per lo sviluppo di strategie terapeutiche».
La malattia di Alzheimer è un processo neurodegenerativo che provoca un declino globale delle funzioni della memoria e di quelle intellettive, associato a un deterioramento della personalità e della vita di relazione. La malattia è causata da fattori genetici e ambientali, che favoriscono la progressiva deposizione all’interno del cervello di una particolare proteina, denominata beta-amiloide, con conseguenze tossiche sui neuroni, favorendo la progressiva degenerazione cerebrale. La malattia colpisce in modo conclamato circa il 5 per cento delle persone oltre i 60 anni. In Italia si stimano circa 600.000 ammalati. Il costante aumento della popolazione in età senile sta rendendo questa patologia una vera e propria «epidemia silente», con elevati costi sociali ed economici.
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