Dove vanno a finire i
dati delle
vecchie ricerche scientifiche? Riuscire ad
accedere ai
dati è da sempre uno dei
punti cardini su cui si basa la
cultura scientifica moderna! Essere sempre e comunque in grado di avere la possibilità per gli
scienziati di
consultare ed effettuare
verifiche sui
risultati dei colleghi, per poi utilizzarli integrandoli nelle proprie
ricerche.
Un
sistema ottimo in teoria, che però in pratica rischia di essere solamente una mera
illusione, per il semplice fatto che non solo sempre più
ricercatori sono reticenti a
condividere i
propri risultati, ma ormai spesso capita che non si sa più nemmeno che fine abbiano fatto i
dati originali di determinate
ricerche. A suonare l’allarme è lo
studio realizzato da un
gruppo di ricercatori canadesi, pubblicato sulla
rivista Current Biology.
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Pen drive e Cd |
I
ricercatori hanno provato di
recuperare i
dati originali di 516
articoli scientifici che sono stati pubblicati tra il 1991 e il 2011. Gli
studi scelti riguardavano tutti quanti il
campo dell’ecologia, e in particolare la
misurazione di caratteristiche anatomiche di piante e animali, perché si tratta di
analisi che vengono eseguite esattamente nello stesso identico modo ormai da decenni.
I
ricercatori canadesi hanno contattato gli
autori degli studi, e hanno chiesto loro di
fornirgli i dati relativi all’articolo in questione. Se per i lavori risalenti a due anni fa non sono emersi particolari problemi, la percentuale di
articoli di cui erano ancora disponibili i
dati originali calava invece drasticamente nel caso di
lavori più vecchi, e con una casistica a dir poco disarmante: il 17% in meno per ogni anno, tanto che solo per il 20% degli
articoli pubblicati negli anni ’90 risultavano ancora disponibili i
dati originali.
Complotto? Truffa? Forse no, magari si tratta più che altro di
distrazione e superficialità da parte degli
scienziati. “Nella maggior parte dei casi i
ricercatori hanno risposto “dovrebbero trovarsi in questo o quel luogo”, riferendosi magari alla soffitta della casa dei genitori, o a un
dischetto per
Pc, oppure
pendrive di cui non vedono un
lettore da 15 anni”, racconta su
Nature Timothy Vines, ricercatore della
University of British Columbia di Vancouver che ha coordinato lo
studio. “In teoria i
dati originali esistono ancora, ma in pratica il tempo e la fatica che dovrebbero fare i
ricercatori per recuperarli rende la cosa proibitiva”. Persino contattare i
ricercatori è risultata spesso un’impresa impossibile. Le
chance di trovare un email funzionante diminuivano infatti del 7% per ogni anno trascorso dalla pubblicazione dell’articolo, tanto che
Vines e colleghi sono riusciti infatti ad entrare in contatto solamente con il 37% degli
scienziati cercati. Anche tra quelli con un indirizzo email aggiornato, solo poco più della metà si è degnata di rispondere alla loro richiesta.
Si tratta di una questione seria, perché (almeno per chi crede nell’
Open Access) il
progresso scientifico si fonda da sempre sulla
condivisione delle conoscenze e dei
dati tra
ricercatori. La tendenza, invece, sembra tristemente andare nella direzione opposta. Specialmente in
campo bio-medico, dove è in atto una vera e propria guerra tra le
industrie del farmaco, che hanno tutto l’interesse a tenere
segreti i dati delle
ricerche da loro finanziate, e la
comunità scientifica, che richiede il libero accesso ai risultati. Un’
indagine presentata a settembre durante l’
International Congress on Peer Review and Biomedical Publication di Chicago ha dimostrato ad esempio che in soli 4 anni, gli autori di articoli pubblicati sui prestigiosi
Annals of Internal Medicine disposti a rendere
pubblici i propri dati sono diminuiti drasticamente, passando dal 62% nel 2008 al 47% nel 2012.