Il-Trafiletto
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21/10/14

Il "Nero" che oscura la nostra salute

Trova il suo habitat naturale nell’atmosfera ed è deleterio per la salute del genere umano. Il pulviscolo nero allo stadio elementare. 


A dare conferma di quanto detto, ci pensa uno studio eseguito a cura dal Cnr, il primo in assoluto del suo genere per quel che riguarda a livello nazionale, che presto sarà reso pubblico sulla rivista Atmospheric Environment. “L'agente inquinante, deleterio sia per il nostro ambiente che per la nostra salute, mischiato al carbonio organico, rappresenta la componente di carbone del dettagliato atmosferico, un pezzo fondamentale di quest’ultimo, fino al 40% della massa”, a parlare è Sandro Fuzzi dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima di Bologna (Isac-Cnr).

“Il carbonio elementare ed organico nell'atmosfera lo si trovano costantemente mischiati, in quanto sono essi stessi originati dalle stesse sorgenti: la combustione non completa di una qualsiasi sostanza organica, sia combustibili fossili, sia biomasse (legna e residui agricoli), per autotrazione, riscaldamento e produzione di energia”. I dati sono ancora limitati e non omogeneamente distribuiti sul territorio. “L’importante quadro di insieme a livello nazionale ha permesso di evidenziare che le concentrazioni di carbonio elementare nei siti trafficati sono più di cinquanta volte maggiori rispetto ai siti remoti di alta montagna.

Ad esempio, proviamo ad andare a Milano in un noto viale della metropoli, il valore medio nel periodo invernale arriva quasi a toccare i 6 microgrammi per metro cubo, valore che invece è pari a 0.1 presso il sito ad alta quota di Monte Cimone, nell’Appennino Tosco-Emiliano. Altro dato fondamentale è che gli agglomerati di carbonio organico ed elementare nella Pianura Padana in inverno sono 3-4 volte superiori rispetto a quelle estive”, prosegue il ricercatore. “Questo per via dell’intensità di alcune sorgenti quali il riscaldamento domestico durante la stagione fredda e delle frequenti condizioni di stabilità atmosferica, con scarso ricambio delle masse d'aria, che favoriscono l’accumulo degli inquinanti”.
La polvere nera che danneggia la nostra salute

Continuando nel periodo invernale, “le maggiori concentrazioni di carbonio organico nei centri urbani della Pianura Padana, raggiungono i 12 microgrammi per metro cubo nella città di Milano, in via Pascal, arrivando ad essere mediamente il doppio rispetto a centri urbani della Puglia, dove raggiungono valori massimi di 8 microgrammi per metro cubo nelle città di Lecce e Bari. Questi valori di stagioni a Milano sono maggiorati del 30% anche a quelli misurati in una grande città come Roma e corrispondono a percentuali di sostanza carboniosa che arrivano al 47% della massa totale dell’aerosol”, continua Fuzzi.

L'azione intrapresa, coordinata dalla Società italiana di aerosol a cui capo c'è Roberta Vecchi (Università di Milano), è stata condotta da 3 Istituti del Cnr, l’Isac di Bologna, l’Istituto sull’inquinamento atmosferico, l’Istituto di metodologia per l’analisi ambientale e da sette università italiane - Statale, Bicocca e Politecnico di Milano, atenei di Genova, Perugia, Bari e del Salento - dall’Arpa-Lombardia e dal Centro comune per la ricerca della commissione europea. “Il carbonio elementare nel segmento atmosferico sta diventando una costante maggiore di rilievo ambientale, tant’è che la Commissione Europea ne raccomanda continuamente il monitoraggio.

Ultimamente, studi epidemiologici hanno reso possibile il fatto che l’Organizzazione mondiale della sanità puntasse la sua attenzione su questa causa inquinante emergente per i suoi effetti deleteri ai danni dei sistemi respiratorio e cardiovascolare, oltre che per i possibili effetti cancerogeni”, conclude il ricercatore.


06/03/14

Il dolore | Dopo decenni di studi scoperta la molecola che fa...male!

Il dolore: dopo decenni di studi scoperta la molecola che fa...male!
Se sessant’anni fa Aldous Huxley, desiderava dare via libera “alla percezione”, oggi la scienza potrebbe essere sul punto di compiere l’esatto contrario.

Proprio cosi: finalmente, dopo decenni trascorsi a compiere ricerche e studi, gli scienziati della University of California di San Francisco sono riusciti nell'impresa di immortalare un’immagine ad altissima risoluzione della Trpv1, ovvero sia la proteina ritenuta responsabile della trasmissione delle sensazioni dolorose dalla pelle al sistema nervoso! Venendo così a conoscenza che la molecola è un vero e proprio portale capace di modificare la sua struttura, cioè dare via libera per l’appunto a reazione a stimoli, come bruciature o contatto con sostanze urticanti.

Molecola del dolore
Lo scorso dicembre, gli scienziati hanno pubblicato su Nature i dettagli della loro scoperta. La ricerca in realtà, era iniziata nei primi anni '90, quando il biologo David Julius si interessò alla capsaicina, la molecola che conferisce al peperoncino il tipico gusto piccante.

All’epoca non se ne sapeva granché: non era chiaro quale recettore vi si legasse e trasmettesse la sensazione al sistema nervoso. Il colpaccio arrivò nel 1997, quando l’équipe di Julius individuò un membro “piuttosto misterioso” di una famiglia di recettori i canali ionici Trp.
Nel corpo dei mammiferi sono disseminati circa 30 diversi canali di questo tipo: i ricercatori scelsero di concentrarsi sulla Trpv1, localizzata nelle fibre nervose sotto la pelle e la lingua e ne scoprirono le caratteristiche fondamentali. “Quando si morde un peperoncino, per esempio”, spiega Quanta Magazine, “la capsaicina si lega al canale Trpv1 e ne modifica la struttura, aprendo le porte per l’interno del neurone. A questo punto, gli ioni entrano nella cellula e innescano l’attività elettrica che invia segnali di dolore al cervello”.

Accade lo stesso quando si sorseggia una tazzina di caffè bollente, ma in quel caso è il calore ad aprire la strada verso il neurone. Da allora a oggi, gli scienziati hanno compreso molte altre caratteristiche del recettore, soprattutto grazie allo sviluppo di nuove tecniche di imaging (in particolare la microscopia crioelettronica) che hanno permesso di fotografarlo con estremo livello di dettaglio.
La Trpv1 a quanto pare, non è un semplice sensore, ma un vero e proprio computer in grado di raccogliere informazioni sul mondo circostante ed elaborarle per proteggerci da danni ulteriori. Funziona più o meno come una manopola del volume che regola l’intensità del dolore: quando è a contatto con la capsaicina per esempio, abbassa la soglia della tolleranza al calore (ecco perché un cibo bollente sembra ancora più caldo dopo aver morso un peperoncino).

Allo stesso modo, rende i neuroni più sensibili a bruciature e sostanze urticanti dopo una scottatura solare. Ma c’è di più. La struttura della Trpv1, secondo gli scienziati, è simile all’airlock delle navicelle spaziali. Sono presenti in realtà due porte – una che dà all’esterno e una che affaccia sul neurone – ed entrambe devono essere aperte perché gli ioni possano fluire e innescare l’attività elettrica. E non tutte le sostanze agiscono allo stesso modo: la capsaicina fa sì che le porte si aprano più frequentemente (dando luogo all’effetto che descrivevamo in precedenza), mentre il veleno del ragno, per esempio, è una specie di fermaporta e luogo a sensazioni di dolore più costanti e prolungate nel tempo. La scoperta, sostengono gli scienziati, aiuterà a mettere a punto nuovi antidolorifici, possibilmente più efficaci con meno effetti collaterali rispetto agli oppiacei attualmente utilizzati: “Più si agisce a livello periferico”, dice Julius, “meglio si può intercettare il dolore senza interferire con in sistema nervoso centrale”. Diamo il benvenuto al dolore nell’era molecolare.

12/02/14

Seattle | il film a luci rosse si interessa della studentessa americana Amanda Knox condannata a 28 anni di carcere.

Vedremo Amanda Knox sul grande schermo? Dopo la nuova condanna del 30 gennaio scorso della Corte d’Appello di Firenze, la casa di produzione di film a luci rosse americana "Monarchy Distribution" ha offerto lavoro ad Amanda Knox, la studentessa di Seattle, 26 anni, ritenuta colpelvole insieme a Raffaele Sollecito e condannata a 28 anni e sei mesi di reclusione ( 25 anni per Sollecito) dell'omicidio della coinquilina Meredith Kercher. Ventimila dollari per fare un film a luci rosse. Questa l’offerta arrivata nei giorni scorsi alla studentessa americana. La proposta è arrivata da Michael Kulich, patron della suddetta casa di produzione, che ha scritto una mail alla ragazza. "Da quando sei tornata alla ribalta - si legge nella lettera riportata dai giornali americani - la nostra casella mail è sommersa da richieste dei fans che vogliono vedere solo te. Kulich ha inoltre sottolineato che Amanda potrebbe decidere in quale pratica amorosa cimentarsi e con chi essere ripresa: "E' una grandissima occasione per lei, per guadagnare dei soldi e finire gli studi o per coprire le spese a cui dovrebbe far fronte ancora in futuro nell'ambito di questo sfortunato processo". Tornando a ritroso nel tempo, la ragazza di Seattle già nel 2011 aveva ricevuto una proposta indecente dalla nota casa di produzioni a luci rosse Vivid Entertainment.

04/02/14

“Hdl” | Il colesterolo che può far male davvero!

"Hdl": il colesterolo che può far male davvero! Nel momento in cui si ossida, favorisce l'aterosclerosi. Esistono vari tipi di colesterolo: affiancato a quello “cattivo”, che mette in grave pericolo la salute di cuore e arterie, c'è ne un tipo “buono” che aiuta a contrastare l'aterosclerosi.

Ma non fraitendetemi, il colesterolo in genere è sempre e comunque un  rischio per la salute e a tal proposito, uno studio pubblicato su Nature Medicine da un gruppo di ricercatori, coordinato da Stanley Hazen, esperto di Cardiologia Preventiva e Riabilitazione della Cleveland Clinic (Stati Uniti), ha infatti messo in luce il fatto che se le proteine presenti al loro interno si ossidano, le particelle di colesterolo buono” perdono le loro proprietà cardioprotettive, diventando pericolose per il sistema circolatorio, favorendo invece l'infiammazione e quindi l'aterosclerosi.

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Hdl il colesterolo che fa male
Hazen e colleghi hanno scoperto che durante il processo di aterosclerosi, che porta al restringimento e all'irrigidimento delle arterie, nelle pareti dei vasi sanguigni si accumula una forma ossidata di apoA1, la proteina più abbondante all'interno delle particelle di colesterolo “buono”. Quando non è ossidata, apoA1 permette di trasportare il colesterolo dalle arterie al fegato, attraverso cui può essere eliminato dall'organismo. La forma ossidata non riesce a svolgere questa funzione, tanto che analizzando il sangue di 627 pazienti i ricercatori hanno scoperto che all'aumentare dei livelli di particelle di colesterolo “buono” ossidato aumenta anche il rischio di avere a che fare con un disturbo cardiovascolare.

“Identificare la struttura della apoA1 non funzionale e il processo attraverso cui inizia a promuovere le malattie anziché prevenirle è il primo passo verso la creazione di nuovi test e trattamenti per i disturbi cardiovascolari”, spiega Hazen. Non solo, questa scoperta fornisce anche una possibile spiegazione al fatto che gli studi condotti fino ad oggi utilizzando farmaci pensati per aumentare i livelli di colesterolo “buono” non abbiano dato i risultati sperati in termini di salute cardiovascolare. “Ora che sappiamo come è fatta questa proteina non funzionale stiamo sviluppando un test clinico per misurare i suoi livelli nel sangue che sarà uno strumento utile sia per valutare il rischio cardiovascolare nei pazienti sia per guidare lo sviluppo di terapie mirate contro l'Hdl [il colesterolo “buono”, ndr] per prevenite le malattie”.

01/02/14

Distinguere e catalogare | Il network neurale in grado di riconoscere i gruppi sociali.

Distinguere e catalogare! Il network neurale in grado di riconoscere i gruppi sociali, ovvero sia la capacità di sapere riconoscere e distinguere tra loro alcune categorie di oggetti.

Provo a fare un'esempio: la capacità di riuscire a distinguere oggetti animati da quelli inanimati, ha recitato un ruolo fondamentale nella nostra evoluzione, al punto tale che per farsene carico il cervello ha sviluppato dei network neurali specializzati a favorire la selezione. Una recente ricerca italiana, coordinata da Raffaella Rumiati della Sissa e Andrea Carnaghi dell’Università di Trieste, conferma tale opinione, come al giorno d'oggi, esista anche di un'altra categoria funzionalmente distinta a livello neurale, in precedenza sconosciuta: quella dei gruppi sociali.

La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Cognitive Neuroscience.
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Network neurale
A dare dimostrazione che nel cervello esiste una distinzione funzionale tra alcune macro categorie sono stati gli studi di neuropsicologia, grazie ad una tecnica chiamata doppia dissociazione. “Per esempio possiamo osservare un certo numero di pazienti che hanno un deficit cognitivo nel riconoscere gli oggetti animati, ma hanno conservato la capacità di riconoscere quelli inanimati”, spiega Rumiati. “Per dire che le due funzioni sono separate però, dobbiamo trovare anche pazienti che mostrino il problema opposto, cioè che abbiano difficoltà con gli oggetti inanimati, ma che conservino buone capacità cognitive per quelli animati”.

Nel nuovo studio, Rumiati e colleghi hanno applicato questa metodologia al riconoscimento di gruppi sociali. “La categoria sociale ha un’enorme importanza dal punto di vista evolutivo per l’essere umano – continua Ruminati – per questo motivo abbiamo ipotizzato che nel cervello esistano dei circuiti ad hoc, che garantiscano efficienza e velocità nel riconoscimento”. Per testare la loro ipotesi, gli scienziati hanno selezionato un certo numero di pazienti con problemi di demenza, e li hanno poi sottoposti a test per valutare la selettività dei loro deficit. “Cercavamo pazienti con difficoltà solo con gli oggetti inanimati, altri solo con gli oggetti animati, e altri ancora solo con i gruppi sociali, per provare la doppia dissociazione di queste funzioni”.

Come prima cosa lo studio ha verificato quanto già riportato in letteratura, e cioè la doppia dissociazione fra la categoria animati e quella inanimati. Il risultato principale però è stato osservare la doppia dissociazione dei gruppi sociali sia dagli oggetti animati che da quelli inanimati. “Questo significa che i gruppi sociali sono una categoria speciale nel nostro cervello”, conclude Rumiati. “Abbiamo dei meccanismi cognitivi dedicati a questo tipo di stimoli, perché riconoscere per esempio il “mafioso”, il “criminale” o il “poliziotto” può salvarci la vita”.“Questo studio – aggiunge Carnaghi – ha un’implicazione importante: dimostra infatti che ha senso usare i metodi quantitativi delle neuroscienze anche nell’ambito delle scienze sociali, in particolare negli studi su come si formano stereotipi e pregiudizi. Grazie a questo studio sappiamo che lo stereotipo legato alle persone è processato dal cervello in maniera diversa dallo stereotipo che può riguardare un oggetto inanimato, o un animale”.

06/01/14

Dove finiscono i dati delle vecchie ricerche scientifiche?

Dove vanno a finire i dati delle vecchie ricerche scientifiche? Riuscire ad accedere ai dati è da sempre uno dei punti cardini su cui si basa la cultura scientifica moderna! Essere sempre e comunque in grado di avere la possibilità per gli scienziati di consultare ed effettuare verifiche sui risultati dei colleghi, per poi utilizzarli integrandoli nelle proprie ricerche.

Un sistema ottimo in teoria, che però in pratica rischia di essere solamente una mera illusione, per il semplice fatto che non solo sempre più ricercatori sono reticenti a condividere i propri risultati, ma ormai spesso capita che non si sa più nemmeno che fine abbiano fatto i dati originali di determinate ricerche. A suonare l’allarme è lo studio realizzato da un gruppo di ricercatori canadesi, pubblicato sulla rivista Current Biology.

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Pen drive e Cd
I ricercatori hanno provato di recuperare i dati originali di 516 articoli scientifici che sono stati pubblicati tra il 1991 e il 2011. Gli studi scelti riguardavano tutti quanti il campo dell’ecologia, e in particolare la misurazione di  caratteristiche anatomiche di piante e animali, perché si tratta di analisi che vengono eseguite esattamente nello stesso identico modo ormai da decenni.

I ricercatori canadesi hanno contattato gli autori degli studi, e hanno chiesto loro di fornirgli i dati relativi all’articolo in questione. Se per i lavori risalenti a due anni fa non sono emersi particolari problemi, la percentuale di articoli di cui erano ancora disponibili i dati originali calava invece drasticamente nel caso di lavori più vecchi, e con una casistica a dir poco disarmante: il 17% in meno per ogni anno, tanto che solo per il 20%  degli articoli pubblicati negli anni ’90 risultavano ancora disponibili i dati originali.

Complotto? Truffa? Forse no, magari si tratta più che altro di distrazione e superficialità da parte degli scienziati. “Nella maggior parte dei casi i ricercatori hanno risposto “dovrebbero trovarsi in questo o quel luogo”, riferendosi magari alla soffitta della casa dei genitori, o a un dischetto per Pc, oppure pendrive di cui non vedono un lettore da 15 anni”, racconta su Nature Timothy Vines, ricercatore della University of British Columbia di Vancouver che ha coordinato lo studio. “In teoria i dati originali esistono ancora, ma in pratica il tempo e la fatica che dovrebbero fare i ricercatori per recuperarli rende la cosa proibitiva”. Persino contattare i ricercatori è risultata spesso un’impresa impossibile. Le chance di trovare un email funzionante diminuivano infatti del 7% per ogni anno trascorso dalla pubblicazione dell’articolo, tanto che Vines e colleghi sono riusciti infatti ad entrare in contatto solamente con il 37% degli scienziati cercati. Anche tra quelli con un indirizzo email aggiornato, solo poco più della metà si è degnata di rispondere alla loro richiesta.


Si tratta di una questione seria, perché (almeno per chi crede nell’Open Access) il progresso scientifico si fonda da sempre sulla condivisione delle conoscenze e dei dati tra ricercatori. La tendenza, invece, sembra tristemente andare nella direzione opposta. Specialmente in campo bio-medico, dove è in atto una vera e propria guerra tra le industrie del farmaco, che hanno tutto l’interesse a tenere segreti i dati delle ricerche da loro finanziate, e la comunità scientifica, che richiede il libero accesso ai risultati. Un’indagine presentata a settembre durante l’International Congress on Peer Review and Biomedical Publication di Chicago ha dimostrato ad esempio che in soli 4 anni, gli autori di articoli pubblicati sui prestigiosi Annals of Internal Medicine disposti a rendere pubblici i propri dati sono diminuiti drasticamente, passando dal 62% nel 2008 al 47% nel 2012.



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