Il-Trafiletto
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15/08/14

La scienza delle nostre origini

La scienza delle nostre origini

La scienza delle nostre origini di C. Tuniz, G. Manzi, D. Caramelli Editori Laterza, 12,00 euro (185pp, 2013). 

La scienza progredisce attraverso le domande. Alcune trovano risposte che sembrano essere definitive, ma spesso sono destinate a essere confutate da scoperte successive. Così è soprattutto per la paleoantropologia: basta un nuovo ritrovamento, o la messa a punto di un innovativo metodo di indagine, a scardinare anni e anni di convincimenti.

Tre scienziati italiani, Claudio Tuniz, Giorgio Manzi e David Caramelli, spiegano l'impatto dell'evoluzione dei metodi scientifici sulla scienza delle nostre origini. E partono proprio con alcune questioni che caratterizzano il dibattito odierno. "Quali sono i confini (fisici, morali ecc.) tra noi, le scimmie antropomorfe viventi, gli umani arcaici e le antropomorfe bipedi che ci hanno preceduto? In altre parole cosa significa essere umani? Quali sono le implicazioni filosofiche, teologiche ed etiche delle recenti scoperte sull'esistenza di diverse specie umane, ancorché estinte? È stata l'evoluzione biologica oppure quella culturale a produrre le nostre inclinazioni religiose ed etiche?

Ebbene, in questo libro non troverete risposte, ma tutto quello che ora, attraverso i nuovi strumenti tecnologie, si è in grado di capire della storia dell'uomo. Per esempio, l'analisi del DNA di una falange di una mano e di un dente molare scoperti in Siberia, antichi di 40mila anni, ha dimostrato che si trattava di una nuova specie umana, diversa sia da noi sia dai Neanderthal. E, ancora, la microtomografia computerizzata con luce in sincrotrone, che permette di ricostruire con grande precisione la forma dell'endocranio degli esseri umani arcaici e delle specie pre-umane, ha messo in luce che il cervello di una "scimmia bipede" di due milioni di anni fa aveva lobi frontali simili ai nostri, suggerendo che si stavano già sviluppando abilità cognitive di tipo umano.

Ci aiutano anche i satelliti che permettono di cercare nuovi siti con resti fossili e le analisi sulla radioattività naturale che datano i reperti fino a milioni di anni. Anche se il cammino di Homo sapiens resta tuttora misterioso, le indagini moderne stanno illuminando la sua strada.(science)


01/07/14

I Neanderthal e i gattini su Internet

Tutti pensiamo all'uomo di Neanderthal come al cavernicolo per definizione: tosto, massiccio e in grado di vivere nel clima proibitivo dell'Europa durante l'Era Glaciale senza neppure una borsa dell'acqua calda.

I Neanderthal tramortivano i mammut, lottavano corpo a corpo con le tigri dai denti a sciabola e, se avessero avuto elenchi telefonici, li avrebbero strappati a mani nude. Inoltre, avevano un cervello di pari dimensioni rispetto al nostro e in alcuni casi perfino più grande.

Come mai allora, gli umani moderni, in meno di 40mila anni, sono passati dalle caverne alla pubblicazione online di foto del gatto di casa, mentre le competenze tecnologiche dei Neanderthal, nei loro 300mila anni di vita, possono riassumersi in uno zero tondo tondo? La risposta a questa domanda ha, in effetti, molto a che fare con le foto dei mici postate su Internet. In un documento pubblicato dalla rivista Proceedings of the Royal Society B, gli antropologi Ellie Pearce e Robin Dunbar dell'Università di Oxoford, insieme al paleontologo Chirs Stringer del Natural History Museum, hanno dimostrato che gli uomini di Neaderthal, benchè dotati di cervelli di grandi dimensioni, non erano tuttavia in grado di dedicare una quantità significativa di volume cerebrale ad attività riflessive.
I Neanderthal e noi umani moderni

Innanzitutto, più il corpo è grosso, più serve un cervello grande per farlo funzionare: i Neanderthal utilizzavano perciò più attività cerebrale per la semplice "manuntenzione" dell'organismo (respirare, camminare, etc etc etc). Poi, i Neanderthal avevano in proporzione occhi più grandi di noi: la dimensione dei bulbi oculari è fortemente correlata al volume cerebrale dedicato all'elaborazione dei segnali visivi. Date le grandi dimensioni oculari dei Neanderthal, è plausibile che il loro apparato visivo assorbisse una quantità maggiore rispetto agli umani moderni. I ricercatori ci ricordano che una vista acuta era particolarmente importante per questi ominidi, che si trovarono a vivere nell'ambiente rigido e crepuscolare del nord Europa. Questa ricerca si inserisce nel contesto di uno studio sull'evoluzione umana che mostra come l'intelligenza abbia a che fare, più che le dimensioni, con l'uso che si fa del cervello. In un altro studio pubblicato dalla stessa rivista, Jeroen Smaers e Christoph Soligo dell'Università College di Londra dimostrano che modifiche di parti del cervello dei primati stessi rispetto a variazioni del volume cerebrale complessivo.

E che c'entrano, direte, i gattini su Internet? A differenza dei Neanderthal, gli umani moderni dedicano funzioni cerebrali ad attività di networking sociale: sono in grado, cioè, di memorizzare e richiamare dettagli relativi a una cerchia sociale più vasta. Questo ci ha consentito di stringere alleanze e più ampio raggio, per scopi sia economici sia relazionali, e di sfruttare una gamma di risorse variegata. Internet sarebbe stato un concetto incomprensibile per Neanderthal, cosi come la nostra capacità di comunicare a grande distanza con persone che spesso non abbiamo neppure mai visto.(science)


29/04/14

Il linguaggio umano | Quando si è evoluto il nostro linguaggio?

Evoluzione del linguaggio umano
Una domanda non da poco, quella riguardante l'evoluzione del nostro linguaggio! Si teorizza che l'Homo heidelbergensis, vissuto circa 600mila anni fa, facesso uso di una forma primitiva di comunicazione verbale.

Ciò che sappiamo è che sono state necessarie complesse modifiche di petto, gola e bocca perchè i nostri antenati potessero riuscire a parlare, mentre mangiavano e respiravano. Noi umani abbiamo molto più controllo sulla respirazione a differenza di altri primati, il che vuol dire che possiamo variare la lunghezza di ogni respiro mentre parliamo.
Le nostre lingue hanno una forma inusuale che ci consente di emettere i vari suoni vocalici, mentre le nostre labbra possono mutare forma alfine di riprodurre le consonanti. Lo studio di alcuni fossili ha dato la convinzione a molti esperti che mutamenti siano potuti avvenire all'incirca 160mila anni fa, quando gli uomini moderni coesistevano con quelli di Neanderthal. Nonostante ciò, non tutti sono in accordo con tale teoria.

Una ricostruzione delle ossa dell'orecchio di Homo heidelbergensis, vissuto circa 350mila anni fa, ha portato alla luce che il loro udito era simile al nostro, suggerendo che essi sarebbero potuti essere in grado di parlare. L'ipotesi più controversa viene da una ricerca eseguita sul cervello grazie a tecniche avanzate per immagini. Essa ha collegato l'abilità di costruire utensili al linguaggio, ipotizzando che il linguaggio potrebbe avere circa 1,75 milioni di anni.

15/03/14

Primitivi accoppiamenti, amori fugaci, Dna nuovo

Cosa non si scopre a proposito dei nostri antenati! Ci fu un tempo in cui Homo sapiens sposandosi dall'Africa incontrò altre due specie di ominidi mescolarono allegramente il loro DNA con gli altri.  E questa promiscuità a cosa ha portato? Gli studiosi hanno fatto scoperte interessanti in merito. L'Homo sapiens si concesse storie d'amore sia con l'uomo di Neanderthal e che con l'uomo di Denisova.
Si potrebbero definire “storie fugaci, di amori rapaci”, forse un ratto delle Sabine della preistoria. Usciti dall'Africa, circa 65.000 anni fa, i nostri antenati Homo sapiens incontrarono almeno altre due specie dello stesso genere. Nonostante quello che pensano i teorici della “purezza della razza”, i sapiens non persero occasione per accoppiarsi con i veri padroni del territorio – prima di conquistare tutto il mondo.
Uomini primitivi

Non furono certo episodi isolati, se una parte dei geni delle altre specie è ancora visibile nel nostro genoma. Promiscui. Gli altri uomini con cui i nostri bis-bis nonni hanno avuto storie d'amore sono il nostro primo cugino, l'uomo di Neanderthal e l'uomo di Denisova. Se per il Neanderthal ci sono parecchi scheletri, per l'uomo di Denisova (che prende il nome dalla grotta nell'Asia centro occidentale dove sono stati trovati i fossili) gli unici frammenti trovati sono la falange di un dito e un dente: nonostante le difficoltà, è stato possibile scrutare all'interno del patrimonio genetico di entrambe le specie e confrontarle con quello dell'uomo moderno. In particolare un folto gruppo di studiosi proveniente da tutto il mondo ha cercato di capire se gli amori dei tre uomini avessero lasciato nella nostra specie qualche pezzetto utile alla sopravvivenza. E hanno studiato in particolare un gruppo di geni chiamato Hla (Human leukocyte antigen) che ha il compito importantissimo di creare proteine che riconoscono e distruggono i germi. L'analisi ha portato a più di una sorpresa: per esempio che una variante di uno di questi geni, HLA-B*73, è rara nell'Africa attuale ma presente nelle popolazioni dell'Asia occidentale (proprio dove si pensa ci siano statigli incontri di uomini e denisoviani). Un altro gene, che si chiama HLA-A*11, rappresenta il 64% delle varianti in Asia orientale e Oceania. Negli europei si trovano invece pezzetti di patrimonio genetico dei neanderthaliani, perché è proprio in Europa e in Asia orientale che le due specie si sono sono “incontrate”. Cosa ne deducono i genetisti? Che gli accoppiamenti con neanderthaliani e denisoviani hanno introdotto nel nostro Dna geni diversi da quelli presenti in Africa, che ci hanno aiutato a combattere i nuovi parassiti che abbiamo incontrato uscendo dalla nostra culla.

31/01/14

Ritorno al primordiale | I Neanderthal stanno per tornare…anzi sono già “dentro” di noi!

Ritorno al primordiale: ritornano i Neanderthal...anzi sono già "dentro" di noi! Proprio cosi, studi recenti hanno evidenziato la stretta interconnessione con i "Neanderthal", attraverso varianti di geni, strettamente connessi con alcune caratteristiche nostre, come i capelli, unghie e pelle, potrebbero averci dato un bel vantaggio a sopravvivere in un ambiente freddo. Ma la connessione con loro non si limita a quanto detto fin'ora, infatti sono emerse anche varianti correlate al diabete di tipo 2, alla malattia di Crohn, alla cirrosi biliare ed al lupus.

Sarebbe dunque questa l'eredità dei Neanderthal che noi Homo Sapiens ci portiamo dentro a nostra insaputa da almeno 40.000 anni. Sia chiaro, non proprio tutti alla stessa maniera, ma chi più e chi meno il ceppo è lo stesso per tutti: tra i “più” evidenti ci sono le popolazioni europee e dell'Asia orientale; mentre tra i “meno” quelle africane, i cui antenati non hanno avuto occasione di entrare in contatto con gli antichi cugini (che vivevano, per l'appunto, in Europa e in Asia). Si presume che, in media, tra l'1 e il 3% del genoma di ogni essere umano moderno arrivi dai Neanderthal, ma si parla di un 20%, forse di un 30%, se invece si considera complessivamente tutto il materiale genetico che potrebbero averci tramandato.

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I Neanderthal dentro noi
Non si tratta di vere e proprie novità, quanto di conferme. A fare il punto sulla questione scientifica del se e del quanto i Neanderthal sopravvivano ancora in noi sono due studi pubblicati in contemporanea su Nature e Science. Il primo, condotto dal laboratorio di David Reich dell'Harvard Medical School di Boston (e in cui compare anche la nota firma di Svante Pääbo, direttore del dipartimento di genetica del Plank Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, a capo del Neandertal Genome Project), è andato a guardare dove, all'interno del genoma umano, si sono conservate le sequenze genetiche che con un'alta probabilità derivano dagli incroci, avvenuti tra gli 80.000 e i 40.000 anni fa, tra Neanderthal e sapiens.

In uno studio precedente, Reich aveva già mostrato che nel Dna delle attuali popolazioni non africane vi sono tracce di geni neandertaliani, in una quantità che si aggira intorno al 2%. Da allora altri team hanno individuato alcune varianti genetiche. La nuova ricerca fa ora un passo avanti, andando a indagare il significato adattativo di questa eredità. Come? I ricercatori hanno cercato le varianti neandertaliane nei genomi di 1004 persone (846 non africane e 176 sub-sahariane) sequenziati grazie al 1000 Genome Project, e li hanno poi comparati con quello di un Homo neanderthalensis di 50.000 anni, sequenziato (e pubblicato) nel 2013.

Sono stati così individuati dei tratti del genoma ricchi di queste varianti e altre zone “deserte”. Queste ultime – espresse in particolare nei testicoli e concentrate nel cromosoma sessuale X – sono molto interessanti perché, ipotizzano gli autori dello studio, potrebbero riguardare geni inizialmente ereditati e successivamente rimossi attraverso la selezione naturale: geni magari non vantaggiosi o risultati pericolosi per i sapiens, forse a causa della parziale incompatibilità riproduttiva tra le due specie.
In oltre il 60% dei 1004 genomi analizzati i ricercatori hanno inoltre trovato la variante di un gene che regola le funzioni della cheratina, la proteina che aiuta la pelle, i capelli e le unghie a resistere meglio al freddo.

L'ipotesi degli autori è che la variante sia risultata vantaggiosa per chi viveva in un ambiente nordico. Probabilmente arrivano dai Neanderthal altre 9 varianti genetiche note per essere associate a funzioni del sistema immunitario o che sembrano in grado di influenzare alcuni comportamenti (per esempio la facilità con cui si smette di fumare).Veniamo allo studio pubblicato su Science a firma di due genetisti dell'Università di Washington, Joshua M. Akey e Benjamin Vernot. Qui i ricercatori hanno messo a punto un nuovo metodo per andare alla ricerca delle sequenze neandertaliane nel genoma di 600 persone, sempre provenienti dall'Europa e dall'Asia dell'Est.

Le conclusioni a cui giungono sono in linea con quelle dello studio su Nature, e confermano quanto emerso nelle ricerche precedenti, condotte su un numero inferiore di persone: le varianti in comune sembrano riguardare principalmente le caratteristiche della pelle. E i conti tornano anche sulla “quantità di genoma” tramandato, che si conferma tra l'1 e il 3% in media per essere umano. Secondo i ricercatori però, se si sommano tutte le varianti individuate, la percentuale di genoma neandertaliano sopravvissuto fino ai giorni nostri potrebbe arrivare al 20% se non al 30%. Chissà che le prossime ricerche non mandino definitivamente in pensione certi vecchi stereotipi.



05/12/13

Alla ricerca del più antico Dna umano!

Ricerca che ti ricerca, scavando un pò qui e poi li, i solitari Neanderthaliani paiono essere sempre più soli! Questo è quanto viene fuori dall'analisi del Dna di questi ultimi: se soltanto qualche tempo fa eravamo giunti a raccontare come fosse stata rimessa in discussione l'ipotesi dell'origine unica, in base alla quale l’Homo sapiens si sarebbe dato origine da una singolare specie dalle origini Africane, una nuova teoria in merito, risultato di nuovo studio, pubblicato oggi su Nature, fa si che i Neanderthal siano sempre più lontani perfino dagli ominidi spagnoli più antichi, vissuti all’incirca 400mila anni fa, che sarebbero invece molto più accostabili al gruppo eurasiatico dei Denisovan.
Matthias Meyer e comapagni, infatti, hanno pensato bene di estrarre il Dna mitocondriale (ovvero quello che si eredita solo per linea materna) dal femore di un ominide rinvenuto a Sima de los Huesos (cioè Cava delle ossa), una sorta di cava sotterranea nella Sierra de Atapuerca, nel nord della Spagna. Si tratta del Dna più antico mai rinvenuto ad oggi.
Dna umano più antico

Gli scienziati sono riusciti nell’intento di ricostruire il genoma mitocondriale quasi completo dell'individuo, ipotizzando di trovare diversi tratti comuni con i Neanderthal: “I fossili di Sima de los Huesos hanno proprietà simili a quelle dei Neanderthal”, si nota nello studio, “per esempio, rispetto alla morfologia dentale, mandibolare, medio-facciale, sopraorbitale e occipitale”.
Eppure, a quanto pare, non è proprio così: i ricercatori non sono riusciti a trovare alcun antenato comune tra l'ominide spagnolo e i nostri cugini.

Al contrario, hanno scoperto parecchie somiglianze con l'Homo di Denisova, identificato nel 2010 basandosi su sequenze di Dna ricavate da una falange e un molare portati alla luce nella Siberia del sud. “Basandoci sull'analisi del loro genoma nucelare”, raccontano ancora gli scienziati, “sappiamo che si tratta di un gruppo sorella [sister] dei Neanderthal”.

C'è da dire, comunque, che il Dna mitocondriale degli esseri umani moderni ha un antenato comune più recente con i Neanderthal che non con i Denisovan, il che potrebbe essere dovuto “a un flusso di geni arrivati ai Denisovan da un altro gruppo arcaico”.In ogni caso, per spiegare la scoperta, i ricercatori ipotizzano diversi scenari evolutivi.
“Anzitutto, gli ominidi di Sima de los Hueses potrebbero essere strettamente imparentati con i progenitori dei Denisovan”, anche se la presenza di quest'ultimi nella regione indicherebbe un loro spostamento spaziale non suffragato da altri ritrovamenti.

È anche possibile, però, che “gli ominidi spagnoli rappresentino un gruppo distinto sia da Denisovan che da Neanderthal, e che abbiano dato più tardi il loro contributo genetico ai primi”. O, ancora, potrebbe essere che “un flusso di geni abbia portato il Dna mitocondriale simile a quello dei Denisovan nella popolazione di Sima de los Hueses o nei suoi antenati”. Per capirlo, saranno necessarie ulteriori analisi e, magari nuove scoperte. E la cava potrebbe rivelarsi estremamente interessante: Sima de los Huesos ha custodito la più grande collezione al mondo di fossili del medio Pleistocene – 28 individui in totale – e quindi potrebbero essere possibili nuove estrazioni di Dna.
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