Il-Trafiletto
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11/05/14

Perchè si cancellano i nostri primi ricordi?

Riuscite a ricordare di essere stato un neonato? Ricercatori trovano la crescita di nuove cellule del cervello che cancellano i nostri primi ricordi  Le nuove cellule sovrascrivono in modo efficace quelle esistenti 

La maggior parte dell'umanità non ricorda ciò che è accaduto all'età di  2 o 3 anni. E 'noto da tempo che fatichiamo a ricordare la nostra infanzia - soprattutto prima dei tre anni. I ricercatori ritengono di aver trovato il perché. Essi sostengono che quando si diventa adulti, la crescita di nuove cellule cerebrali sovrascrivono efficacemente le cellule esistenti, cancellando i primi ricordi.

"Amnesia infantile si riferisce l'assenza di ricordi per gli eventi che si sono verificati nei nostri primi anni di vita. La maggior parte delle persone in genere non ricordono molto di quello che è successo quando avevano solo 2 o 3 anni di età", ha detto Katherine Akers, che ha condotto lo studio presso il Laboratorio di Neurobiologia presso l'Hospital for Sick Children di Toronto. "Ma questo non è imputabile all'assenza di capacità di ricordare dei bambini più piccoli dei tre anni"- "Per esmpio, quando nostra figlia aveva 3 anni avrebbe entusiasticamente raccontato i dettagli di gite allo zoo, di visite ai nonni e così via. "Ma lei ora a 5 anni, non ha alcun ricordo di questi eventi - questi ricordi sono rapidamente dimenticati".
immagine presa dal web

Poiché l'ippocampo è importante per la memoria, ci sono stati diversi studi che hanno esaminato come i nuovi neuroni potrebbero contribuire a formare nuovi ricordi. Il tipico risultato è che la riduzione dei livelli di neurogenesi ostacola la formazione di nuove memorie. Ma, come i ricercatori credevano, nuovi neuroni integrati nell'ippocampo possono avere un impatto sulle memorie esistenti. In particolare, i nuovi neuroni rimodellano i circuiti ippocampali, e questo rimodellamento può provocare una diminuzione delle informazioni (memorie) impresse in tali circuiti.

Elevando artificialmente il processo di neurogenesi in un esperimento eseguito dai ricercatori sui topi, si cancellano le momorie immagazinate fino a quel momento. Lo studio ha dimostrato che la riduzione della neurogenesi nei topi infantile ha portato alla relativa conservazione di memorie che altrimenti sarebbero stati dimenticati.

26/03/14

La nostra memoria: i nostri ricordi reinterpretati in base alle esperienze presenti

Quante volte vi è capitato di dire a qualcuno che ha una "memoria di ferro"? Lo avete detto perchè secondo voi il vostro interolocutore aveva la capacità di ricordare in maniera esatta avvenimenti, nozioni, nomi, persone che invece voi avevate totalmente dimanticato. Avere la memoria di ferro significa avere una capacità di ricordare praticamente inattaccabile. In realtà uno studio, i cui risultati sono stati pubblicati a febbraio sul  Journal of Neuroscience, mostra come la "memoria" sia in un certo qual modo difettosa, cioè inserisce dei frammenti del presente nelle esperienze passate che vengono richiamate alla mente.
Cervello

Questo studio è stato condotto presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine, mettendo in evidenza che i nostri ricordi sono reinterperetati in base alle esperienze presenti. Non dobbiamo considerare la nostra memoria come l'hard disk di un computer in cui immagazzinare i nostri ricordi in maniera oggettiva. Donna Jo Bridge, ricercatrice in medicina e scienze sociali presso la Northwestern University Feinberg School of Medicine, che ha condotto lo studio, fa un esempio molto semplice ed efficace: il classico “amore a prima vista” è un trucco della memoria.  “Quando le persone ricordano il momento in cui hanno incontrato il loro attuale partner, associano all’evento sentimenti di euforia e di amore”, spiega. “Ciò avviene perchè si proiettano nel ricordo dell’incontro passato, i sentimenti che si provano attualmente per quella persona”.  Possiamo dire che la nostra memoria è come un viaggiatore del tempo, che prende un treno per tornare nelle vecchie stazioni del passato.  Lo studio mostra il punto esatto nel tempo in cui le nuove informazioni vengono impiantate in una memoria esistente.  Tutto ciò accade nell’ippocampo, il quale svolge una funzione simile ad un tecnico del montaggio di un film.  Ma attenzione, la memoria, dice la Bridge, non è una videocamera. Gli eventi in essa immagazzinati vengono ristrutturati e modificati per creare un filo conduttire con il nostro mondo attuale, perchè esso è in continua mutazione ed evoluzione.   Joel Voss, autore senior dello studio, dimostra che la nozione di una memoria perfetta è un mito. “A tutti piace pensare alla memoria come qualcosa che ci permette di ricordare vividamente la nostra infanzia o quello che abbiamo fatto la settimana scorsa”, ha detto Voss. “Ma la memoria è strutturata per aiutarci a prendere le decisioni giuste nel momento giusto e, quindi, essa deve continuamente essere aggiornata. Le informazioni che sono rilevanti in questo momento vanno a sovrascrivere quelle che c’erano in precedenza”. La Bridge ha sottolineato le implicazioni dello studio per l’utilizzo dei testimoni oculari nei processi. “La nostra memoria è strutturata per cambiare, non per rigurgitare fatti. Quindi, non siamo testimoni molto affidabili”. Tuttavia, la stessa ricercatrice avverte che i risultati della ricerca sono il frutto di esperienze fatte in un contesto sperimentale e controllato. “Anche se il fenomeno è stato registrato in un ambiente di laboratorio, è ragionevole pensare che la memoria si comporti allo stesso modo anche nel mondo reale”, conclude la Bridge.

16/03/14

Ippocampo: padre amorevole e ninja della caccia

Il cavallucio marino mi ha sempre affascinata, il "cavallo di mare" ha sempre scatenato la mia fervida fantasia, per me che sono una pazza ippomane. Che fosse mammifero a quattro zampe, la creatura più bella del mondo o un colorato ricciolo abitante del mare sempre di cavallo si tratta. Una delle caratteristiche che più mi colpì fu il fatto che era il padre a portare a termine la gravidanza e a prendersi cura dei suoi piccoli, un'eccezione del regno animale. Qualcuno ritiene che il suo sia un aspetto grottesco, in realtà io lo trovo pieno di eleganza.  Un'eleganza che ne fa un altrettanto impareggiabile cacciatore come sostiene uno studio apparso su Nature Communications.
Cavallucio marino
All'ora di pranzo gli ippocampi sono costretti a vedersela con veri campioni di velocità: minuscoli crostacei di 1-2 millimetri di lunghezza chiamati copepodi, abilissimi nel captare ogni minima perturbazione dell'acqua. Appena avvertono movimento intorno a sé, queste creature scappano macinando, ogni secondo, una distanza pari a 500 volte la propria lunghezza, come se un essere umano di 1,8 metri nuotasse a 3218 chilometri orari. Eppure, in condizioni normali, i cavallucci marini li acchiappano 9 volte su 10.
Per capire come facciano, alcuni ricercatori dell'Università di Austin, Texas, hanno filmato i movimenti di una specie di cavalluccio nano, l'Hippocampus zosterae, con riprese olografiche 3D, una tecnica che utilizza un microscopio fornito di laser e telecamera ad alta velocità. Dall'analisi dei video è emerso che la forma particolare del muso degli ippocampi permette di minimizzare il disturbo idrodinamico (cioè il movimento dell'acqua intorno alla proboscide) e di arrivare fino a un millimetro di distanza dalla preda: a quel punto, il capo flessibile consente di orientare la bocca secondo la migliore angolazione e di risucchiare, come un aspirapolvere marino, i poveri copepodi. «Per le loro vittime, i cavallucci marini sono più che altro mostri marini» dicono gli scienziati, che classificano il metodo di caccia degli ippocampi come alimentazione "pivot", un tipo di pesca a corta distanza che richiede anche una certa rapidità di movimento. Altri pesci dal capo meno affusolato, come lo spinarello, non hanno la stessa abilità di "ninja" dimostrata dai cavallucci. «È come una gara agli armamenti tra preda e predatore» continua Brad Gemmell, a capo dello studio «e il cavalluccio ha sviluppato un buon metodo per avvicinarsi tanto da colpire da una distanza brevissima».

08/02/14

Amore a prima vista? | Solo questione di memorie e ricordi passati!

Amore a prima vista? Solo questione di memorie e ricordi passati, con ogni probabilità un ricordo sbiadito della nostra memoria!

Il colpo di fulmine, l'amore a prima vista per l'appunto, pare che sia il risultato ultimo di un determinato momento accaduto in un tempo che fu, degno della trama di un Hollywoodiano film. Almeno cosi pare essere secondo quanto venuto alla luce da uno studio eseguito alla Feinberg School of Medicine della Northwestern University e pubblicato sul Journal of Neuroscience. In base alla ricerca, infatti, la nostra memoria si muoverebbe come un sapiente viaggiatore nel tempo che con dovizia e competenza, raccoglie frammenti del presente inserendoli in ciò che ricordiamo del passato.

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La memoria presente frutto del nostro passato
“Quando ripensiamo al primo incontro con il nostro partner attuale, ci sembra di ricordare questo sentimento di amore ed euforia” ha spiegato l’autrice dello studio Donna Jo Bridge, “Ma di fatto potremmo semplicemente star proiettando i nostri attuali sentimenti indietro nel tempo, al primo incontro con questa persona.”

E il processo non si limita a questo: i nostri ricordi si adattano a un ambiente in continuo cambiamento per aiutarci a sopravvivere, e ci aiutano ad occuparci di quello che è importante. Per fare questo, la nostra memoria cambia struttura e modifica gli eventi per creare una storia che stia bene con il nostro mondo attuale.

Secondo lo studio, questo continuo processo di editing avviene nell’ippocampo, una parte del cervello situata nel lobo temporale, che svolge un ruolo molto importante per la memoria a lungo termine e la navigazione spaziale. Nell’esperimento, 17 soggetti di ambo i sessi hanno studiato 168 immagini in cui potevano osservare alcuni oggetti con diversi sfondi, come ad esempio una foto scattata sott’acqua o una vista aerea di una zona rurale. Successivamente, quando è stato chiesto ai partecipanti di collocare gli oggetti nella posizione originale, ma su uno sfondo diverso, essi li hanno sempre inseriti nel posto sbagliato. Nella seconda parte dello studio, ai soggetti sono stati mostrati gli oggetti in tre diverse posizioni sullo sfondo originale, ed è stato chiesto loro di scegliere quale fosse la posizione corretta.

“I partecipanti hanno sempre scelto la posizione che avevano scelto nella prima parte dello studio” ha spiegato Bridge, “Questo mostra che il loro ricordo della posizione dell’oggetto era stato modificato per riflettere la posizione che ricordavano sul nuovo sfondo. La loro memoria ha aggiornato l’informazione presente nel vecchio ricordo.” L’intero esperimento è stato effettuato in uno scanner per la risonanza magnetica, in modo che gli scienziati potessero analizzare l’attività del cervello, oltre che tracciare i movimenti degli occhi dei partecipanti.

“A tutti noi piace pensare che la memoria sia questa cosa che ci permette di ricordare chiaramente la nostra infanzia e quello che abbiamo fatto la scorsa settimana” ha commentato Joel Voss, co-autore dello studio “Ma lo scopo della memoria è quello di aiutarci a prendere buone decisioni nel presente e di conseguenza, essa deve essere perennemente aggiornata. Le informazioni che sono rilevanti ora possono sovrascrivere quello che c’era in principio.”




31/01/14

"L’isola del giorno prima"...secondo Henry Gustav Molaison!

"L'isola del giorno prima"...secondo Henry Gustav Molaison! No, non abbiate timore, non preoccupatevi amanti della letteratura, non si tratta di una blasfema rivisitazione del capolavoro del maestro Umberto Eco, ma bensi di una storia che sarebbe stata benissimo al celebre racconto di fama mondiale: "L'isola del giorno prima", o forse a "L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello". Insomma una storia in perfetto stile Memento, quella che riguarda Henry Gustav Molaison, uno dei più famosi pazienti che gli annali storici delle neuroscienze abbiamo mai serbato.

Nel 1953, un intervento chirurgico sperimentale – praticatogli per curarlo da una grave forma di epilessia – lo privò del meccanismo di fissazione delle memorie: Molaison ricordava tutto quello che era successo prima dell’intervento, ma era diventato completamente incapace di memorizzare nuove informazioni. Tanto che, per decenni, continuò a salutare i medici che lavoravano con lui come se li vedesse sempre per la prima volta. Naturalmente, il suo caso ha suscitato profondo interesse nella comunità scientifica, intenzionata a studiarlo per capire come esattamente il cervello creasse le registrazioni di volti, fatti ed esperienze di vita.

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Henry Gustav Molaison
Alla morte di Molaison, nel 2008, Jacopo Annese, neuroanatomista italiano della University of California, San Diego, e direttore del Brain Observatory, ha congelato il suo cervello in un blocco di gelatina e lo ha tagliato in 2.401 lamelle sottili come fogli di carta. L’operazione, che è durata 53 ore, è stata trasmessa in diretta streaming sul sito di Annese, registrando oltre 400.000 accessi. L’obiettivo di Annese, racconta Wired.com, è di creare un atlante open-access “per la preservazione storica e per lo studio scientifico” del cervello di Molaison. E oggi, a 6 anni di distanza, è stata pubblicata un’analisi preliminare dell’organo, che spiega il deficit di memoria del paziente.

Gli autori dello studio, tra cui Suzanne Corkin, neuroscienziata del Mit che ha lavorato con Molaison per quasi cinquant’anni, hanno scoperto che William Beecher Scoville, il chirurgo che operò Molaison, non rimosse l’intero ippocampo – come aveva intenzione di fare. Ne tagliò solo una porzione, insieme a parte della corteccia entorinale e dell’amigdala. È questo danno, piuttosto che la rimozione dell’ippocampo, che causò il deficit di memoria: “La corteccia entorinale”, spiega Corkin, “contiene tutti i cammini [pathways] che portano informazioni dal mondo esterno, percepite attraverso i cinque sensi, all’ippocampo.

Molaison è stato privato di queste connessioni, e dunque il meccanismo di fissazione delle memorie nell’ippocampo era praticamente inservibile”. Tagliato fuori dal resto del mondo, un po’ come un computer offline. L’esame post-mortem, tra l’altro, ha anche scoperto una piccola lesione nel lobo frontale. Secondo gli scienziati, è possibile che sia successivo all’operazione chirurgica, e potrebbe essere la causa della demenza che colpì Molaison prima della sua morte. “Sono necessari ulteriori studi”, precisa Corkin. “Il nostro studio non è l’ultimo sul cervello di Molaison. Al contrario, è l’inizio di un nuovo capitolo in uno dei casi di studio più lunghi nella storia della scienza”.

29/10/13

Alzheimer: trovati altri geni con un importante ruolo nella malattia

Una ricerca comparsa in una rivista scientifica 'Nature genetics', realizzata dai principali consorzi europei e americani del settore e col contributo dell'Università di Firenze, da come risultato la scoperta di undici geni associati alla malattia di Alzheimer.

Alzheimer.
 La strategia dello studio che ha coinvolto i soggetti in più repliche, ha portato a evidenziare risultati significativi a livello di geni, alcuni dei quali consentono di approfondire l’importanza di meccanismi della malattia già noti (associati alle proteine amiloide e tau), mentre altri sottolineano la rilevanza di nuove aree del cervello di potenziale interesse per la comprensione delle cause della malattia.
Alcuni di questi nuovi geni sono infatti coinvolti nel funzionamento dell’ippocampo, la prima area cerebrale che si altera a causa dell’Alzheimer, e nelle attività di comunicazione tra i neuroni. «Si tratta, in tutti i casi, di meccanismi - ha spiegato Nacmias - che hanno un ruolo importante nei processi che possono portare a neurodegenerazione. Ulteriori studi sono necessari per caratterizzare queste varianti dal punto di vista funzionale, per chiarire la loro associazione con il rischio di malattia e per definire meglio il loro ruolo nella fisiopatologia dell’Alzheimer».
«Questi nuovi dati forniscono nuovo impulso alla ricerca - ha commentato Sorbi - suggerendo indicazioni anche per lo sviluppo di strategie terapeutiche».
La malattia di Alzheimer è un processo neurodegenerativo che provoca un declino globale delle funzioni della memoria e di quelle intellettive, associato a un deterioramento della personalità e della vita di relazione. La malattia è causata da fattori genetici e ambientali, che favoriscono la progressiva deposizione all’interno del cervello di una particolare proteina, denominata beta-amiloide, con conseguenze tossiche sui neuroni, favorendo la progressiva degenerazione cerebrale. La malattia colpisce in modo conclamato circa il 5 per cento delle persone oltre i 60 anni. In Italia si stimano circa 600.000 ammalati. Il costante aumento della popolazione in età senile sta rendendo questa patologia una vera e propria «epidemia silente», con elevati costi sociali ed economici.
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