Il-Trafiletto
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09/07/14

L'orto dentro casa

SproutsIO Microfarm
l'orto dentro casa
Per coltivare ortaggi non servono grandi appezzamenti di terreno e neppure vanghe: basta un kit, che ci trasformerà tutti in agricoltori senza neppure doverci sporcare le mani. 

Con SproutsIO Microfarm, infatti, anche il terreno è un concetto superato: le piante crescono circondate da una speciale nebbia nutritiva. L'intuizione è venuta a Jennifer 3'outin Farah, dottoranda del Media Lab del MIT negli USA: oggi, la scienziata si augura che SproutsIO diventi un prodotto onnipresente in ambito urbano, consentendo anche a chi vive in città di coltivare pomodori e patate negli appositi "pod" previsti dal sistema. Si realizzerebbe così il sogno del perfetto chilometro zero: ortaggi prodotti nell'esatto luogo di consumo.

Oltre a sostituire il terriccio con la nebbia nutritiva (si parla di colture "aeroponiche"), SproutsIO è dotato di una serie di sensori che registrano temperatura, umidità, pH e condizioni di illuminazione, regolando automaticamente i valori per mantenere le piantine in un ambiente ideale. I dati vengono poi inviati a una app, per consentire ai neo-orticoltori di tenere d'occhio le melanzane attraverso lo smartphone o il tablet anche dall'ufficio, a chilometri di distanza. "Coltivare le piantine in un ambiente aeroponico offre numerosi vantaggi", spiega Broutin Farah. "Il consumo d'acqua si riduce del 98 per cento e quello di fertilizzanti del 60 per cento rispetto alla coltivazione in terreno. Inoltre, gli ortaggi crescono al coperto e dunque, sono disponibili tutto l'anno". L'inventrice spera che SproutsIO si diffonderà presto in tutte le case. "Attualmente siamo ancora alla fase di prototipo, ma il sistema potrebbe essere pienamente sviluppato entro un anno".(science)



15/04/14

Testa da robot aria da folletto | Kismet ovvero sia il tocco umano in un robot.

Di certo una decina d'anni fa, avrebbe avuto un'approccio più d'impatto! Kismet, quando fu fatto apparire con quella testolina da robot e l'aspetto di un dolce folletto...

Usava espressioni infantili oltremodo esagerate per esercitare una specie di ricatto emotivo nei confronti dell'essere umano alfine di indurlo ad interagire con lui. Ad esempio: si mostrava triste se qualcuno smetteva di giocare con lui, annoita se si continuava a fare sempre la stessa attività. Kismet fu creato da Chynthia Breazeal del MIT, ed era la dimostrazione non soltanto che non sappiamo dire di no ad un viso carino, ma anche che era possibile per addestrare un robot, sfruttare le nostre reazioni innate ai bisogni di un neonato.
Nexi

Oggi Kismet si è evoluto in un robot più rifinito, più simile a un essere umano acquistando più mobilità, adesso si chiama Nexi, ed è dotato anche di braccia per interagire con ciò che lo circonda. E' cosi possibile insegnare a Nexi a svolgere complesse situazioni interpersonali, come l'attenzione condivisa in cui due o più persone (o robot) fanno uso di gesti oppure utlizzano lo sguardo per indicare a che cosa si stanno riferendo.

Queste abilità sono alla base di ogni interazione umana e dovrebbero quindi fare in modo che per esempio i robot non si limitino a guardarci il dito quando indichiamo qualcosa, come tendono a fare alcuni di cani. E' come una scuola per robot nella quale si insegnano le buone maniere che li renderanno un pò più simili a noi.

05/04/14

Robot come noi | Presto guideranno veicoli e svolgeranno mansioni domestiche!

Inizieranno presto, più di quanto non si possa immaginare, ad aprire porte, pilotare veicoli e a svolgere le mansioni domestiche più comuni. Queste le nostro controparti meccaniche, questi Robot!

Chi fosse capitato a dicembre scorso all'autodromo di Homestead, in Florida, avrebbe potuto pensare di essere finito sul set di un film di George Lucas. In mezzo alla pista si era radunata un'immensa folla per osservare robot dall'aspetto futuristico, mentre affrontavano una serie di prove sotto i riflettori delle telecamere che ne riprendevano ogni movenza.

I robot erano riuniti li per competere nei DARPA Robotic Challenge Trials. Le squadre di istituzioni prestigiose e blasonate come la NASA e il MIT si affrontavano in una serie di gare pensate specificatamente per mettere alla prova le capacità dei loro robot: salire su una scala, collegare un tubo a una bocchetta e aprire il rubinetto, guidare un veicolo, usare un utensile per praticare un foro in un murodi cemento e classico tra i classici, aprire una porta per entrare in un edificio.
DARPA Robotic Challenge Trials

Anche se forse per noi sono banali, prove come quelle delle gare DARPA (l'agenzia statunitense per i progetti di ricerca avanzata per la difesa) presentano enormi difficoltà per i robot e per i loro progettisti. L'obiettivo di competizioni come queste è di riuscire un giorno a mandare i robot in ambienti pericolosi, per svolgere i compiti che metterebbero a repentaglio le vite umane.
Ma non solo: l'altro scopo è quello di renderli capaci di ortarci in auto a fare shopping, stiraci il bucato o riposndere la telefono.

E' per tal motivo che la DARPA ha dato vita alla competizione, prospettando un premio di due milioni di dollari alla 8 squadre giunte alle finali, che si disputeranno quest'anno. Ed è per lo stesso motivo che partecipano aziende tecnologiche innovative come Google, che di recente ha acquisito la Boston Dynamics, una start-up con sede nel Massachusetts che ha sviluppato alcuni robot più sofisticati del mondo, tra i quali BigDog e Atlas.

31/01/14

"L’isola del giorno prima"...secondo Henry Gustav Molaison!

"L'isola del giorno prima"...secondo Henry Gustav Molaison! No, non abbiate timore, non preoccupatevi amanti della letteratura, non si tratta di una blasfema rivisitazione del capolavoro del maestro Umberto Eco, ma bensi di una storia che sarebbe stata benissimo al celebre racconto di fama mondiale: "L'isola del giorno prima", o forse a "L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello". Insomma una storia in perfetto stile Memento, quella che riguarda Henry Gustav Molaison, uno dei più famosi pazienti che gli annali storici delle neuroscienze abbiamo mai serbato.

Nel 1953, un intervento chirurgico sperimentale – praticatogli per curarlo da una grave forma di epilessia – lo privò del meccanismo di fissazione delle memorie: Molaison ricordava tutto quello che era successo prima dell’intervento, ma era diventato completamente incapace di memorizzare nuove informazioni. Tanto che, per decenni, continuò a salutare i medici che lavoravano con lui come se li vedesse sempre per la prima volta. Naturalmente, il suo caso ha suscitato profondo interesse nella comunità scientifica, intenzionata a studiarlo per capire come esattamente il cervello creasse le registrazioni di volti, fatti ed esperienze di vita.

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Henry Gustav Molaison
Alla morte di Molaison, nel 2008, Jacopo Annese, neuroanatomista italiano della University of California, San Diego, e direttore del Brain Observatory, ha congelato il suo cervello in un blocco di gelatina e lo ha tagliato in 2.401 lamelle sottili come fogli di carta. L’operazione, che è durata 53 ore, è stata trasmessa in diretta streaming sul sito di Annese, registrando oltre 400.000 accessi. L’obiettivo di Annese, racconta Wired.com, è di creare un atlante open-access “per la preservazione storica e per lo studio scientifico” del cervello di Molaison. E oggi, a 6 anni di distanza, è stata pubblicata un’analisi preliminare dell’organo, che spiega il deficit di memoria del paziente.

Gli autori dello studio, tra cui Suzanne Corkin, neuroscienziata del Mit che ha lavorato con Molaison per quasi cinquant’anni, hanno scoperto che William Beecher Scoville, il chirurgo che operò Molaison, non rimosse l’intero ippocampo – come aveva intenzione di fare. Ne tagliò solo una porzione, insieme a parte della corteccia entorinale e dell’amigdala. È questo danno, piuttosto che la rimozione dell’ippocampo, che causò il deficit di memoria: “La corteccia entorinale”, spiega Corkin, “contiene tutti i cammini [pathways] che portano informazioni dal mondo esterno, percepite attraverso i cinque sensi, all’ippocampo.

Molaison è stato privato di queste connessioni, e dunque il meccanismo di fissazione delle memorie nell’ippocampo era praticamente inservibile”. Tagliato fuori dal resto del mondo, un po’ come un computer offline. L’esame post-mortem, tra l’altro, ha anche scoperto una piccola lesione nel lobo frontale. Secondo gli scienziati, è possibile che sia successivo all’operazione chirurgica, e potrebbe essere la causa della demenza che colpì Molaison prima della sua morte. “Sono necessari ulteriori studi”, precisa Corkin. “Il nostro studio non è l’ultimo sul cervello di Molaison. Al contrario, è l’inizio di un nuovo capitolo in uno dei casi di studio più lunghi nella storia della scienza”.
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