Il-Trafiletto
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22/02/14

Premiati gli agenti che scoprirono i due atleti rifugiati al CARA di Bari

Abdul Nageeye, 21 anni, somalo e Hitsa Mussie, 24 anni, eritreo. Due ragazzi che erano scappati per non morire e che si sono ritrovati a correre per vivere. Il merito è del sovrintendente Francesco Leone e degl'assistenti capo Francesco Martino e Donato Venturo , podisti amatoriali, uomini per bene, poliziotti in servizio al Cara di Bari.


Abdul Nageeye, a sinistra, con Hitsa e gli amici poliziotti


Tre agenti in servizio al CARA, il Sovrintendente Francesco Leone e gli Assistenti Capo Francesco Martino e Donato Venturo, appassionati sportivi, li hanno visti correre e allenarsi. Questi ultimi, rimasti sorpresi dalle loro capacità atletiche, hanno scoperto che sono due sportivi di eccellenza, nonostante il fisico provato e fragile. Convinti che simili talenti andassero necessariamente sostenuti, hanno deciso di fornire ai due giovani tutto l’occorrente per allenarsi al meglio, dedicando il loro tempo libero per farli partecipare a gare di atletica. Vincono gare in tutta la provincia: Bari, Casamassima, Putignano, Abdul primo e Mussie secondo. Il loro nome finisce sul taccuino delle società nazionale.Con il trascorrere del tempo, si è anche instaurata una salda e reciproca amicizia tra gli operatori di polizia ed i predetti atleti. Attualmente l’atleta di nazionalità somala ha un permesso di tre anni per protezione umanitaria e dimora a Todi, mentre l’eritreo ha avuto un permesso di soggiorno come rifugiato per cinque anni ed è in Svizzera. Considerata la valenza della vicenda che vede coinvolti vari aspetti lodevoli, ai tre agenti della Polizia di Stato, la stima di tutti i Baresi in una manifestazione avvenuta sabato 15 febbraio p.v., alle ore 10.00, nella Sala consiliare del Palazzo di Città. Ha presenziato l’Arcivescovo di Bari Mons. F. Cacucci, il Prefetto A. Nunziante, il Questore D. Pinzello, il Sindaco di Todi C. Rossini ( che accompagna l’atleta somalo Abdulle), i Sindaci dei paesi di due agenti, di AdelfiaV. Antonacci e Palo del Colle D.


03/02/14

A Mae la tolleranza è una necessità | Mae Sot esseri umani senza futuro!

A Mae Sot la tolleranza è una necessità! Vi è un posto nel pianeta che si trova esattamente al confine fra la Thailandia e la Birmania, dove vivono esseri umani, un popolo speciale, un popolo che ha subito un furto, un popolo a cui hanno trafugato un tesoro inestimabile: il loro futuro!

Sono a decine di migliaia i rifugiati politici e i profughi birmani che sin dagli anni '80 a seguito degli scontri fra le minoranze etniche in particolar modo di etnia Karen e la dittatura militare del paese birmano, hanno illegalmente varcato il confine stabilendosi in Thailandia e con il trascorrere del tempo, hanno ottenuto lo stato di rifugiati, lavorando per lo più come braccianti agricoli.
La situazione che si è venuta a creare negli ultimi decenni in questa area della Thailandia, abbinata alla povertà delle strutture in cui questo popolo si è stabilito, è affascinante e preoccupante al tempo stesso.

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Mae Sot
Preoccupante perché i birmani in Thailandia vivono in condizioni di indigenza, non possono lavorare regolarmente nel paese che li ospita perché privi di visto o cittadinanza, così come non possono godere delle strutture sanitarie e di altri diritti quali il riconoscimento a livello internazionale degli studi svolti negli accampamenti.
Affascinante perché, nella loro semplicità, vivono in villaggi dove la natura è padrona, e hanno saputo creare, anche grazie alle associazioni umanitarie presenti sul posto, forme di collaborazione sociale nuove e attive.

A circa 60 chilometri a nord di Mae Sot è possibile, previo preventivo permesso e superando un blando posto di blocco, raggiungere Mae La, il più grande dei campi profughi della zona, che oggi conta una popolazione di circa 50.000 birmani rifugiati. Le statistiche sono tuttavia incerte. Da tempo infatti il governo thailandese ha terminato la consegna dei numeri che sanciscono lo stato di rifugiato e che qui fra la popolazione del campo vengono scambiati in una sorta di "mercato nero" per garantirsi alcuni privilegi, tuttavia siamo ormai alla seconda generazione di nati in terra straniera.

Aperto nel 1984, Mae La offre una vista eccezionale all'arrivo. Composto da centinaia di baracche di bambù con tetti di foglie ordinatamente sistemate ai piedi della montagna nel mezzo di una vegetazione tropicale, il campo ospita oggi anche i figli dei figli dei primi rifugiati, bimbi che scorrazzano felici a piedi nudi per le strade sterrate, ignari delle loro origini e senza una precisa appartenenza futura.

Sebbene a gennaio 2012 il Governo dell'unione birmana abbia firmato un preliminare trattato di "cessate ostilità" con il Karen National Union (ancora in corso di negoziazione), teoricamente ponendo così fine all'origine della diaspora, e nonostante la situazione in Myanmar sia negli ultimi anni leggermente migliorata, con la riabilitazione del premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, oggi a capo dell'opposizione, i birmani thailandesi hanno ancora paura a rientrare nelle loro terre. Molti di loro, la seconda e terza generazione, non sentono in realtà nemmeno l'esigenza di tornare, perché sono nati in queste zone, sulle quali però non hanno diritti.
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