L’Nbia è una grave sindrome neurodegenerativa di origine genetica e ad oggi non c’è ancora una terapia efficace per poterla combattere. Nelle due ricerche realizzate grazie ai finanziamenti di Telethon, e pubblicati sulle riviste Brain e The American Journal of Human Genetics, i ricercatori dell'Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano hanno rivelato come un nuovo gene che potrebbe provocare alcune forme della malattia, evidenziando oltretutto l'efficacia terapeutica della pantetina, un integratore alimentare già approvato ed utilizzato negli Stati Uniti.
L'Nbia in sostanza altro non è che un insieme di diverse patologie accomunate da un innaturale accumulo di ferro nel cervello. Si tratta dunque di malattie genetiche che colpiscono in età precoce, causando disfunzioni neurologiche e muscolari estremamente gravi, che in poco tempo riducono i giovani sfortunati ad essere incapaci di alimentarsi e di camminare normalmente.
Sindrome Nbia |
I risultati, pubblicati sull'American Journal of Human Genetics, hanno permesso di identificare un nuovo gene, denominato Coasy, responsabile della produzione di una proteina chiamata coenzima A, che nei pazienti con Nbia risulta alterata. Si tratta di un passo in avanti importante perché rafforza la convinzione che il coenzima A giochi un ruolo nell’insorgere di queste patologie: anche Pank2 infatti, il gene che causa il tipo più comune di sindromi Nbia, è coinvolto nella produzione di questa proteina. Il prossimo passo, spiegano i ricercatori, sarà indagare il legame tra la sintesi alterata del coenzima A e l'accumulo di ferro in regioni specifiche del cervello.
Nel secondo studio, apparso su Brain, i ricercatori del Besta hanno dimostrato invece la possibilità di un approccio terapeutico sperimentale per le forme di Nbia causate dall'alterazione del gene Pank2. Utilizzando la pantetina, una sostanza coinvolta nella sintesi del coenzima A e gia approvata dall'Fda come integratore alimentare, sono infatti riusciti a contrastare significativamente i sintomi clinici della malattia, ottenendo il recupero della normale attività motoria e una sostanziale riduzione della neurodegenerazione su topi colpiti dalla versione animale dell'Nbia.
Nonostante l'importanza della loro scoperta, i ricercatori ricordano però che è ancora presto per pensare ad una possibile applicazione clinica. “Si tratta di importanti passi in avanti nella conoscenza di queste gravi malattie e nell’elaborazione di una cura”, commenta Valeria Tiranti, ricercatrice dell’Istituto Neurologico Besta che ha coordinato entrambi gli studi. “E’ importante tuttavia precisare che si tratta ancora di esperimenti di laboratorio, e che per arrivare a un’applicazione nella pratica clinica saranno necessari alcuni anni”.