Il-Trafiletto
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27/09/14

Prostata | Uomini, mangiate molti pomodori per evitare il tumore alla prostata.

Il licopene è un composto chimico antiossidante formato solo da idrogeno e carbonio, appartenente al gruppo dei carotenoidi. È un additivo alimentare usato come colorante e identificato dalla sigla E160d. La maggiore fonte di licopene è rappresentata dal pomodoro e dai suoi derivati, dove rappresenta il 60% del contenuto totale in carotenoidi. Il contenuto in licopene è influenzato dal livello di maturazione del pomodoro, è stato calcolato infatti che in pomodori rossi e maturi sono presenti 50 mg/kg di licopene. E proprio grazie a questo composto che il cancro alla prostata si riduce di un buon 20% nei soggetti che amano fare uso a pranzo di elevate quantità di pomodoro. Lo rivela uno studio pubblicato su Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention e svolto da scienziati dell'Università di Bristol, in collaborazione con le Università di Cambridge e Oxford. Tale studio ha monitorato lo stile di vita di circa 20.000 uomini inglesi di età compresa tra i 50 e i 69 anni. Dai risultati ottenuti è emerso che nelle persone che avevano consumato più di 10 porzioni di pomodori alla settimana – in forme varie come pomodori freschi, succo di pomodoro, sugo – si è vista una diminuzione del 18% del rischio di cancro alla prostata, dato da non sottovalutare visto che tale tumore è il secondo in ordine di mortalità tra la popolazione mondiale di sesso maschile. Secondo gli studiosi dovranno essere condotti ulteriori studi a conferma di tali risultati, soprattutto per quanto riguarda la sperimentazione sugli esseri umani, inoltre consigliano di non limitarsi all’uso dei soli pomodori per questo tipo di prevenzione, ma di mangiare una grande scelta di frutta e verdura, mantenendo un peso adatto, magari conciliandolo con della sana attività fisica.

13/03/14

L'obesità può essere vinta grazie alla scoperta di un nuovo gene.

Scoperto il gene del grasso,il responsabile che dirige la sequenza di eventi genetici, il complice dell'obesità. Si chiama IRX3 e lo hanno individuato scienziati americani e spagnoli in uno studio pubblicato su 'Nature'. Gli studiosi hanno inoltre scoperto che topi Ogm in cui veniva eliminato IRX3 erano molto più magri rispetto ad altri che possedevano tale gene. Pesavano circa il 30% in meno, e a differenza dei loro simili più robusti avevano una massa grassa minore. Non solo: i topi privati di IRX3 erano praticamente immuni dall'obesità, anche se venivano nutriti con una dieta ipercalorica e anche se non facevano movimento. Infine, avevano una maggiore capacità di metabolizzare il glucosio e risultavano protetti dal rischio diabete. La ricerca è stata condotta da Marcelo Nobrega dell'università di Chicago, e Jose Luis Gomez-Skarmeta del Centro andaluso di biologia dello sviluppo di Siviglia. Tale ricerca svela che il gene dell’obesità per eccellenza, “FTO”, scoperto con tanto clamore ormai alcuni anni fa, lavora semplicemente all’ombra di IRX3 e non è di per sé condizionante il peso di un individuo. Si era scoperto il ruolo di FTO nel rischio individuale di obesità in un grosso studio su Science datato 2007. Ma il nuovo lavoro mostra che le cose sono più complesse del previsto e che in realtà FTO è solo una comparsa, mentre il protagonista assoluto è IRX3. Gli scienziati hanno scoperto che IRX3 agisce nell’ipotalamo - centro di controllo di appetito e dispendio energetico - interagendo con molti altri geni tra cui FTO e in questo modo regola la massa grassa di un individuo. L’obiettivo, affermano i ricercatori, è ora quello di capire quali sono i più importanti bersagli molecolari di IRX3 perché alcuni di essi potrebbero divenire degli ottimi bersagli terapeutici di nuovi farmaci antiobesità.

15/01/14

Il rischio di recidiva del melanoma svelato dalla risposta immunitaria.

Il rischio di recidiva del melanoma svelato dalla risposta immunitaria. Il sistema immunitario può venire in aiuto nella ricerca contro la recidiva del melanoma, il tumore della pelle tra i più aggressivi e complessi da curare.
Melanoma

Uno studio del gruppo di ricerca coordinato da Monica Rodolfo, biologa dell’Unità di Immunoterapia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, pubblicato sulla rivista scientifica Cancer Research, mette in luce lo stretto legame tra cellule immunitarie e il rischio che il tumore torni a far paura nei 5 anni successivi alla rimozione con intervento chirurgico.

Gli studiosi hanno analizzato campioni di tessuto prelevati dai linfonodi sentinella, i linfonodi più vicini all’area del tumore e più a rischio di metastasi, di 42 pazienti affetti da melanoma con differente aggressività della malattia. In aggiunta i ricercatori hanno raccolto campioni di sangue da 25 pazienti con melanoma di stadio 3 e 4 e li hanno comparati con quelli di donatori sani combinati per età e sesso. L'attenzione è caduta sulla molecola CD30, che risulta più espressa nelle cellule immunitarie linfonodali e in quelle circolanti dei pazienti con malattia aggressiva.

Le stesse cellule evidenziano una funzione alterata e sono segno di immunosoppressione o di esaurimento dell’immunità antitumore. I ricercatori hanno trovato inoltre che le cellule con immunitarie positive per il marcatore CD30 erano più espresse nei linfonodi sentinella dei pazienti con recidiva del tumore e in quelli con stadio della malattia avanzato. “Questo studio – commenta Marco Pierotti direttore scientifico dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano - si colloca nella tradizione di ricerca immunologica e di immunoterapia dei tumori, caratteristica di questo Istituto, ma integrata da innovativi approcci molecolari volti a comprendere i complessi rapporti che si instaurano tra il tumore e l’organismo che lo ospita. Riconoscere in ciascun paziente se il suo sistema immunitario reagisce al melanoma o lo subisce, consentirà di modulare gli interventi per ottimizzare l'efficacia terapeutica e una corretta allocazione di risorse economiche”.

Lo sviluppo clinico di queste informazioni potrebbe consentire di identificare quali pazienti, dopo l’intervento chirurgico, abbiano un elevato rischio di recidiva e necessitino quindi di ulteriori terapie, evitando invece un trattamento inutile e tossico ai pazienti guariti dalla chirurgia. “La molecola CD30 - spiega Monica Rodolfo - potrebbe diventare un nuovo bersaglio terapeutico per i pazienti con melanoma. Essendo già disponibili farmaci che agiscono su questo marcatore CD30, è possibile immaginare che questa nuova strategia terapeutica possa essere studiata nei pazienti in tempi relativamente brevi”.
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