Il-Trafiletto
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29/07/14

Sole | Quattro ragioni per starsene all'ombra

Verità scottante! Senza di lui la vita sarebbe triste, ma è sano stare come una lucertola sotto il Sole? 

"La luce solare è indubbiamente la principale causa evitabile di tumore alla pelle, e dovremmo seguire il consiglio di proteggerci la pelle e gli occhi", spiega Richard Weller, dermatologo all'Università di Edimburgo. Eppure con tutti i vantaggi derivanti dall'esposizione alla luce solare può valere la pena rischiare di prendere qualche raggio occasionale. Il legame tra luce solare e pressione sanguigna è interessante, considerando che le statistiche dell'Organizzazione Mondiale della Sanità dimostrano che l'ipertensione è uno dei principali fattori di rischio di morte a livello mondiale. "E' risaputo che la pressione sanguigna è più bassa d'estate che d'inverno", spiega Weller. "Tuttavia, somministrare tavolette di vitamina D non incide sulla pressione sanguigna. Credo pertanto che la vitamina D sia una misura dell'esposizione alla luce del Sole, ma non l'unica ragione dei benefici per la salute."

                                                   Quattro ragioni per starsene all'ombra.
 Quattro ragioni per starsene all'ombra

FACCIA DA TARTARUGA
Anni di adorazione del Sole potrebbero trasformarvi in Lonesome George, la tartaruga delle Galapagos morta a cento anni. La combinazione delle radiazioni UVA e UVB causa l'ispessimento della pelle e la perdita della sua naturale elasticità. Ecco perché ci vengono le rughe e le borse. Siamo più sensibili alla luce solare da giovani, come hanno rivelato ricercatori australiani che hanno digitalizzato le immagini dei danni alla pelle in persone tra i 18 e gli 83 anni. E dunque, per scongiurare l'effetto tartaruga a cinquant'anni, faremo bene a evitare i lettini a sdraio da adolescenti. Da segnalare, però, che la luce UV migliora l'aspetto della pelle in alcuni disturbi come l'acne, la psoriasi.

TUMORE ALLA PELLE
Una scarsità di Sole abbassa il livello di vitamina D, aumentando il rischio di alcune forme di tumore. Tuttavia, nel tumore cutaneo, la causa è l'eccesso di Sole. Il consiglio quindi è di utilizzare sempre una buona crema solare con un alto fattore di protezione. Ma non mancano sorprese. In particolare, uno studio scandinavo del 2009 ha riscontrato una maggiore frequenza di melanomi fra i medici e i dentisti, mentre i pescatori o i boscaioli sono risultati i meno colpiti. Evidentemente, i lavoratori all'aria aperta corrono meno rischi di scottarsi perché sono esposti costantemente alla luce solare.

DIPENDENZA DALLA LUCE SOLARE 
Alcuni stakanovisti dell'abbronzatura mostrano i tipici sintomi dell'abuso di sostanze. Lo hanno dimostrato alcuni dermatologi intervistando i frequentatori delle spiagge dell'isola di Galveston in Texas. In questo caso, la "sostanza" da dipendenza non era l'alcol, né il tabacco, bensì la radiazione UV. Infatti, la sensazione sulla pelle di questa radiazione genera un tale senso di benessere che il desiderio di riviverlo diventa una dipendenza fisica. Anche l'abbronzatura da lettino crea dipendenza. In uno studio del 2006, alcuni scienziati americani hanno somministrato a "drogati" da lettino abbronzante il naltrexone, un farmaco usato per l'alcolismo, riscontrando una diminuzione della voglia di abbronzarsi.

ACCECATI DAL SOLE 
Fissare il Sole senza occhiali dotati di specifiche lenti protettive fa male, una ragione sufficiente per astenervi dal farlo. L'esposizione diretta ai raggi UV di una luce solare intensa può persino danneggiare l'occhio e aumentare il rischio di cataratta. Questo disturbo colpisce il cristallino, un organo trasparente, situato all'interno del bulbo oculare. E se non viene trattato, la vista si annebbia progressivamente fino alla cecità. L'intervento chirurgico consiste in piccoli tagli nell'occhio per rimuovere la cataratta. Ma prima di arrivare a misure così drastiche, sarà bene proteggere gli occhi con occhiali avvolgenti, come conferma uno studio svolto alla Fordham University.(science)

10/07/14

Steve Jones | Genetista e autore scientifico

Intervistato da Andy Ridgway, il professore di genetica spiega, con il suo consueto stile schietto, come siamo usciti dal brodo primordiale e perché la selezione naturale non ci riguarda più.  

Perché ha dedicato una parte importante della sua carriera allo studio delle chiocciole?
In realtà, sono state le chiocciole a scegliere me. Da vecchietto quale sono, ricordo benissimo la metà degli anni Sessanta: quando iniziai a occuparmi di ricerca, c'erano pochissime piante o animali da poter studiare sperimentalmente nel campo della biologia evolutiva. Non era infatti possibile identificare le variazioni genetiche di molte specie, mentre l'evoluzione è proprio questo: genetica, sommata al tempo. Alcuni animali, però, rappresentavano un'eccezione: tra questi c'erano le chioccioline Cepaea, caratterizzate da pattern morfologici delle conchiglie estremamente vari, fenomeno per il quale disponevamo già di dati genetici. La tecnica che applicavamo era semplicissima, si andava in luoghi diversi, si contavano i geni e si valutava se la frequenza delle varianti fosse diversa da una localizzazione all'altra: la risposta che ci siamo dati è stata un enfatico sì.
Steve Jones
Genetista e autore scientifico

Quali lezioni abbiamo imparato dalle chiocciole?
Inizialmente, ebbi l'idea assai poco originale di individuare la causa delle differenze morfologiche delle conchiglie su base geografica. Andammo nel punto più a nord dove era localizzabile la specie Ej Cepaea nemoralis, ovvero a Montrose, in Scozia, e raccogliemmo una gran quantità di campioni dalle dune sabbiose locali. Poi, guidammo fino in Yugoslavia, il confine meridionale dell'area di 5 distribuzione, recuperando via via altri campioni lungo il percorso. Risultò assolutamente evidente che c'erano forti diversità tra i gruppi prelevati a nord, di colore scuro, e quelli di provenienza meridionale, più chiari.

Questo vale anche per gli umani? 
Se prendiamo in considerazione il colore della pelle, il quadro antecedente alle grandi migrazioni del 1492 (anno in cui Cristoforo Colombo attraversò per la prima volta l'Atlantico) prevedeva pelle scura in Africa e pelle chiara in Europa e Estremo Oriente. Questo sembrerebbe in contraddizione con il principio scientifico secondo il quale i colori scuri si surriscaldano alla luce del Sole: perché i neri si trovano in Africa? La spiegazione è che le persone con la pelle scura, effettivamente, tendono a scaldarsi più rapidamente al Sole, ma le radiazioni ultraviolette sono pericolose: chi si espone alla forte luce diurna e ha la pelle chiara, si scotta, o può addirittura contrarre tumori cutanei. La pelle scura, dunque, aiuta.

Perché, allora, l'abbiamo persa?
È successo perché la luce ultravioletta, attraversandoci, produce vitamina D, la cui carenza provoca ogni sorta di problemi. Quando, dunque, ci si trasferisce in zone meno esposte alla luce solare, come i Paesi del Nord, se si ha la pelle scura non si sintetizza una quantità sufficiente di vitamina D per questo, la selezione naturale ci ha fatto diventare pallidi. È uno degli esempi più lampanti delle motivazioni alla base della diversità umana.

Perché la diversità è importante? 
Molti studiosi si occupano di diversi pattern di diversità (per esempio, proteica o cromosomica), e si pongono domande estremamente complesse sul perché un gruppo di geni si trovi in una certa posizione e un altro in un'altra. Nessuno, però, si fa la domanda fondamentale: perché esiste la diversità? Senza diversità genetica saremmo ancora tutti immersi nel brodo primordiale, perché non ci sarebbe stata evoluzione. La diversità è la materia prima dell'evoluzione: senza di essa, la vita non sarebbe progredita.

Ritiene che gli umani si stiano ancora evolvendo? 
Ho ricevuto critiche per aver scritto nel mio primo libro, Linguaggio dei Geni, che l'evoluzione dell'uomo è arrivata al capolinea. Invece, avevo ragione. La gente pensa che sia un idiota perché non prend in considerazione fattori quali il colore del pelle o la resistenza alla malaria indotta d; un tratto genetico, la presenza di cellule falciformi. Sono elementi inconfutabili, ma io sto parlando del presente. Nessuno dovrebbe morire più di carcinoma cutaneo questo tumore miete ancora vittime, ma non dovrebbe. E se fossimo disposti a spendere il denaro necessario a debellare la malaria, sarebbe facile riuscirci. Tante altre malattie, peraltro, stanno già scomparendo. L'evoluzione dipende da differenze ereditarie nella riproduttività: è questa, in poche parole, la selezione naturale. In tutto il mondo sviluppato, e in maniera sempre più massiccia anche nei Paesi emergenti a eccezione dell'Africa, queste differenze stanno scomparendo. Quindi, l'evoluzione umana per selezione naturale, anche se non si è completamente arrestata, ha però subito un rallentamento.

Quali conseguenze avrà la fine della selezione naturale umana?
A lungo termine, l'accumulo di mutazio dannose. Ne stiamo già subendo gli effetti. Oggi, moltissime persone sopra i 65 anni inevitabilmente si ammalano di gravi forme di cancro, cardiopatie e diabete, che sono almeno in parte malattie genetiche. Certo, non aiuta esporsi al Sole se si ha la pelle chiara, o nutrirsi di cheeseburger, ma esiste anche una forte componente ereditaria per la maggioranza di queste patologie. Cattivo materiale genetico, che mostra i suoi effetti nelle fasi tardive della vita: la nostra società dovrà abituarsi all'idea.(science)


15/01/14

Il rischio di recidiva del melanoma svelato dalla risposta immunitaria.

Il rischio di recidiva del melanoma svelato dalla risposta immunitaria. Il sistema immunitario può venire in aiuto nella ricerca contro la recidiva del melanoma, il tumore della pelle tra i più aggressivi e complessi da curare.
Melanoma

Uno studio del gruppo di ricerca coordinato da Monica Rodolfo, biologa dell’Unità di Immunoterapia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, pubblicato sulla rivista scientifica Cancer Research, mette in luce lo stretto legame tra cellule immunitarie e il rischio che il tumore torni a far paura nei 5 anni successivi alla rimozione con intervento chirurgico.

Gli studiosi hanno analizzato campioni di tessuto prelevati dai linfonodi sentinella, i linfonodi più vicini all’area del tumore e più a rischio di metastasi, di 42 pazienti affetti da melanoma con differente aggressività della malattia. In aggiunta i ricercatori hanno raccolto campioni di sangue da 25 pazienti con melanoma di stadio 3 e 4 e li hanno comparati con quelli di donatori sani combinati per età e sesso. L'attenzione è caduta sulla molecola CD30, che risulta più espressa nelle cellule immunitarie linfonodali e in quelle circolanti dei pazienti con malattia aggressiva.

Le stesse cellule evidenziano una funzione alterata e sono segno di immunosoppressione o di esaurimento dell’immunità antitumore. I ricercatori hanno trovato inoltre che le cellule con immunitarie positive per il marcatore CD30 erano più espresse nei linfonodi sentinella dei pazienti con recidiva del tumore e in quelli con stadio della malattia avanzato. “Questo studio – commenta Marco Pierotti direttore scientifico dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano - si colloca nella tradizione di ricerca immunologica e di immunoterapia dei tumori, caratteristica di questo Istituto, ma integrata da innovativi approcci molecolari volti a comprendere i complessi rapporti che si instaurano tra il tumore e l’organismo che lo ospita. Riconoscere in ciascun paziente se il suo sistema immunitario reagisce al melanoma o lo subisce, consentirà di modulare gli interventi per ottimizzare l'efficacia terapeutica e una corretta allocazione di risorse economiche”.

Lo sviluppo clinico di queste informazioni potrebbe consentire di identificare quali pazienti, dopo l’intervento chirurgico, abbiano un elevato rischio di recidiva e necessitino quindi di ulteriori terapie, evitando invece un trattamento inutile e tossico ai pazienti guariti dalla chirurgia. “La molecola CD30 - spiega Monica Rodolfo - potrebbe diventare un nuovo bersaglio terapeutico per i pazienti con melanoma. Essendo già disponibili farmaci che agiscono su questo marcatore CD30, è possibile immaginare che questa nuova strategia terapeutica possa essere studiata nei pazienti in tempi relativamente brevi”.
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