Intorno agli anni ‘80, la
globalizzazione economica ha avuto modo e
condizioni favorevoli per potersi
sviluppare velocemente, grazie anche ad una sempre più crescente
libertà di fare. Ciò nonostante sia innegabile come abbia portato
abbondanza e
prosperità nei
paesi più evoluti ed avanzati e nuove
opportunità per i
lavoratori di alcune
zone povere del
mondo,
l’Asia su tutti, si sono evidenziati forti
segnali che ne dimostrano la pericolosa
fragilità.
 |
Il paradosso della globalizzazione |
Un esempio eclatante è stato il
collasso finanziario del 2008, che ha avuto
ripercussioni in tutto il
mondo, proprio a causa di un
effetto domino favorito proprio dalla
globalizzazione. Queste considerazioni ci portano a riflettere sui
rischi inerenti con i cosiddetti
mercati iper-globalizzati, ovvero quei
mercati in cui i
confini nazionali non comportano più
costi di transazione sul
commercio e sulle
attività finanziarie.
Un
dogma che vige tra gli
economisti è quello che la
globalizzazione sia “
cosa buona” e che vada sempre e comunque incentivata. Tale visione è una risultanza della “
fede” incondizionata nell’efficienza dei
mercati e nella loro capacità di
auto-regolamentarsi. Ma cosa fare se ad un certo punto si scopre che la
globalizzazione sta portando grandi
vantaggi in particolar modo ai membri
dell’élite finanziaria? I
benefici del
libero flusso di
beni e
capitali tramite i
confini nazionali sono già stati, per la maggior parte, realizzati e quello che si prospetta all’orizzonte, se si dovesse procedere oltre nel
processo di globalizzazione, è che i
vantaggi sono ormai
controbilanciati da grossi
costi dovuti a
disoccupazione,
riduzione di salari,
pensioni perdute e
comunità urbane che si stanno svuotando. Per far in modo che il
beneficio procurato dai
mercati globali possa essere
equamente distribuito, servirebbero
strutture globali di
governance che nella realtà non esistono e alla cui realizzazione la maggior parte degli
uomini potenti si opporrebbe.
Dani Rodrik,
professore prima a
Harvard e ora
all’Institute for Advanced Studies di Princeton, ha dato vita ad un
simposio nel libro
The Globalization paradox: Democracy and the Future of the World Economy (di cui è uscita anche la traduzione italiana, con il titolo
Globalizzazione Intelligente,
Editore Laterza) un pungente punto di vista sulle
questioni poste dal
fenomeno della globalizzazione. I
punti salienti della sua argomentazione mettono in luce la necessità di
gestire con estrema attenzione la
globalizzazione, per evitare di incorrere in un
paradosso, dal nome di “
trilemma di Rodrik”: non è possibile perseguire simultaneamente
democrazia,
autodeterminazione dei singoli
Stati e
globalizzazione economica.
Al più, possiamo salvaguardare due di queste tre caratteristiche. Se ci muoviamo in direzione della
iperglobalizzazione, siamo costretti a compiere una scelta tra
democrazia e
sovranità nazionale: una delle due va sacrificata. Troppa
libertà ai
mercati condurrebbe infatti a
un’economia mondiale instabile con gravissime conseguenze
politiche e sociali. Se invece concedessimo troppo potere ai
governi nazionali finiremmo per cadere nel
protezionismo. La
globalizzazione è per sua natura dirompente: riorganizza i luoghi e le modalità di lavoro, e pertanto i luoghi e le
modalità con cui si fanno
profitti. Questo effetto
destabilizzante è tollerabile da una società democratica solo se c’è fiducia che il processo sia corretto e porti giovamento alla maggior parte della
popolazione.
Il punto da cui si sviluppa l’attrito tra
iperglobalizzazione e
democrazia è il naturale limite che determina la massima estensione dei
mercati. Questo limite è definito dall’ampiezza delle
regole di cui i
mercati hanno bisogno per poter funzionare. A chi spetta il compito di stabilire queste regole? Le
differenze sociali,
culturali e di sviluppo tra i singoli
Stati rendono estremamente difficile ipotizzare una
governance globale. Pertanto, in pratica, il compito di assicurare la necessaria complementarietà tra
mercati e regole sta ai governi degli
Stati nazionali. Questo implica che l’unica opzione ragionevole sia di moderare le ambizioni rispetto alla
globalizzazione economica. Senza un giusto
bilanciamento tra
istituzioni preposte alla
governance e estensione dei
mercati, si va incontro a problemi di legittimazione oppure di efficienza. Per evitare l’inefficienza che sarebbe derivata da regole globali, i mercati sono stati spinti verso una globalizzazione selvaggia. La proposta di
Rodrik è di contenere la
globalizzazione all’interno di limiti che diano ai singoli Stati
libertà di policy e al contempo favoriscano un’adeguata
regolamentazione dei mercati.
L’Eurozona
Un caso interessante è rappresentato dalla “
zona euro”, dove è stato messo in atto un tentativo di
governance globale.
L’Unione Europea ha infatti dato vita a istituzioni per gestire un
singolo mercato europeo, che riguarda il
lavoro, i
beni di consumo, i servizi, la
finanza, e via discorrendo. Pensiamo al
Parlamento europeo, eletto direttamente dai
cittadini, alla
Commissione europea, alla
Corte europea della giustizia, incaricata di vigilare affinché le
leggi nazionali non violino
regole emanate a livello europeo. La
zona euro ha creato contrasti tra
governi nazionali e
istituzioni centralizzate. A livello locale, ci si trova spesso in situazioni in cui i margini per un’azione politica efficace sono estremamente ridotti. È quello che alcuni studiosi hanno descritto come il problema di avere una policy senza politica a livello centrale e una politica senza policy a livello statale.
Conclusioni
Pare doveroso concludere lasciando la parola a
Rodrik, che in un brano tratto dal suo
libro scrive: «Noi possiamo e dovremmo raccontare una
storia diversa riguardo alla
globalizzazione. Anziché vederla come un
sistema che ha bisogno di un singolo insieme di
istituzioni o di una
superpotenza dominante, dovremmo accettarlo come una collezione di nazioni diverse, le cui interazioni sono regolamentate da un insieme di norme leggere, semplici e trasparenti. Questa visione non costruirà una strada verso un mondo piatto – un’economia mondiale senza confini. Niente la costruirà. Renderà però possibile un’economia mondiale sana e sostenibile che lascia spazio alle singole
democrazie di determinare il proprio futuro».