Il-Trafiletto
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31/03/14

Pellegrino Artusi, nel suo libro «L'arte di mangiar bene»

I tagliolini un tempo erano anche «matti», fatti cioè da una sfoglia creata con la farina mischiata all'acqua, e nient'altro. Questi erano meno sottili di quelli fatti con la pasta all'uovo e differivano dalle tagliatelle davvero di pochissimi millimetri. Li si condiva spesso con il solo soffritto di lardo e cipolla. Si andava a nozze naturalmente, quando si potevano accompagnare al sugo di fagioli. Per quanto riguarda il nome ricordiamo che in altre zone d'Italia si chiamano anche taglierini. Quelli che Pellegrino Artusi, nel suo libro «L'arte di mangiar bene», consiglia di fare di semolino: «Occorre semolino di grana fine ed ha bisogno di essere intriso con le uova qualche ora prima di tirare la sfoglia. Se quando state per tirarla - consiglia il gastronomo di Forlimpopoli - vi riuscisse troppo morbida, aggiungete qualche pizzico di semolino asciutto per ridurre l'impasto alla durezza necessaria, onde non si attacchi al mattarello. Non occorrono né sale, né altri ingredienti».
Ma i tagliolini in Romagna ora si fanno con farina tipo 0 e uova, senza l'aggiunta di altro.


TAGLIOLINI ALLA SALINARA (ricetta fornita dall'Associazione Maitre Italiani di Ristoranti e Alberghi). Ingredienti per quattro persone: due cipolle grosse, olio d'oliva extra vergine, concentrato di pomodoro, brodo, quattro uova di tagliolini freschi, pepe nero. Affettare sottilmente le cipolle e farle imbiondire a fuoco lento con olio. Aggiungere poi il brodo, il concentrato di pomodoro e fare cuocere per due ore circa a fuoco lento. A parte: cuocere in acqua i tagliolini, scolarli e condirli con la salsa, spolverandoli con pepe nero.

TAGLIOLINI ALLA BOSCAIOLA. Mettete 40 grammi di burro in una padella, poi aggiungete due spicchi di aglio tritato, 65 grammi di prosciutto e un po' di prezzemolo, entrambi tritati e un pizzico di peperoncino. Accendete il fuoco e fate rosolare gli ingredienti; ora versate in padella un bicchiere di vino bianco secco e 65 grammi di funghi trifolati già cotti. Quando vedrete che il vino è evaporato completamente, aggiungete sei cucchiai di conserva di pomodoro e lasciate ancora sul fuoco per qualche minuto. A parte: cuocete in acqua salata i tagliolini, che dopo aver scolato metterete assieme al sugo che avete preparato. Mettete sul fuoco con un po' di panna e girate i tagliolini per condirli meglio. Spruzzate sopra del prezzemolo tritato e servite in tavola

TAGLIOLINI AL RAGÙ DI ASTICINI E BORLOTTI (ricetta del ristorante «Villa Merenda» di Ravaldino in Monte di Forlì). Prendete 300 grammi di asticini, 300 di fagioli borlotti freschi, 300 di pomodori maturi freschi, 50 grammi di cipolla tritata, erba cipollina, mazzetto aromatico, olio d'oliva, sale e pepe quanto basta . Lessare i borlotti, a parte preparare il fondo soffriggendo in poco olio la cipolla tritata e il mazzetto aromatico, unire i pomodori spellati e tagliati a dadini, salare e pepare. Pronto il fondo di cottura unire i borlotti e un poco della loro acqua di cottura, lasciare insaporire, unire gli asticini. Chiudere con un coperchio e far bollire a fuoco forte per cinque minuti circa, cuocere i taglio lini in abbondante acqua salata, scolarli e saltarli con la suddetta salsa, disporre in piatti singoli ben caldi e guarnire con qualche asticino .

28/03/14

Tortelli o Ravioli? Un dilemma nel piatto

Tortelli e Ravioli sono in generale «italiani », i tortelli sono quelli romagnoli. Nulla a che fare coi tortellinì bolognesi, che invece sono della stessa famiglia dei cappelletti: i  tortelli (i popolari «turtel») sono caratrerìstici con la loro sagoma rettangolare o quadrata, ripieni di ricotta, parmigiano e spinaci o erbette. Tutto qui e nient'altro (eccetto ovviamente sale ed aromi) perché, si badi bene, anche il minimo sentore di carne li riporterebbe alla dizione più ampia di «ravioli», di cui sono una sottospecie a parte, più elementare ma non meno prelibata. Rossi di sfoglia e verdi di ripieno, chiedono solo di far risaltare il loro gusto genuino con quello dei ricchi condimenti romagnoli, oppure con quello tenue del burro. E così i tortelli fanno eco, asciutti, ai cappelletti, che invece nascono per morire in brodo.
Tortelli
 Sono l'altra faccia (sempre squisita, però) della minestra classica romagnola, in un dualismo col cappelletto che non vuol avere vincitori, ma nobilita entrambi e fa risaltare i sapori intensi della Romagna popolare, quella attaccata alle cose semplici ma anche schietta e vigorosa. E già perché il torello delizia e riempie nella stessa misura, anche se (ben più delle ciliegie) uno tira l'altro ... Si diceva della composizione, essenziale ma obbligatoria: pasta all'uovo per la sfoglia; parmigiano grattugiato, ricotta o raviggiolo, erbette o spinaci per il ripieno. Le uniche varianti ammesse, per farli restare tortelli nel senso letterale della parola (resta inteso che ognuno poi li chiama come vuole, comunque li faccia e li preferisca ... ) è quello che li vede (tipici di Santa Sofia) farciti col fortunato abbinamento di patata e zucca, oppure con le erbe di campo (ripieni entrambi ideali per i guscioni sulla lastra di Verghereto e dintorni: tortelli alla lastra, sono un piatto caratteristico dell'alta Romagna). La forma a rettangolo o quadrato è oggi la più tradizionale, ma va detto che in un passato nemmeno troppo remoto erano assai diffusi anche con altre sagome, prima di tutte quella a mezza luna. Lo testimonia pure Artusi, che nella sua «Scienza in cucina» li indica in quest'ultima veste; aggiungendo peraltro «è da preferirsi la forma dei cappelletti»! Altri tempi: adesso simili fogge sono rimaste unicamente per i tortellacci, i classici orecchioni , che anzi prendono questo nome proprio perché, a mo' di lunetta ed assai grandi, ricalcano la sembianza delle orecchie. I tortelli sono invece subito riconoscibili: forma regolare, dimensioni non eccessive e un cuore verde che traspare sotto il giallo involucro della pasta. Non è il caso comunque di stare a sottilizzare: se anche ve li offrissero con qualche tipo di carne nel ripieno chiamandoli tortelli, cambierebbe ben poco; anche i tortelli più autentici, infatti, sono pur sempre ravioli! Eppoi, basta che siano ben fatti, e quindi inevitabilmente deliziosi, per far cadere le disquisizioni terminologiche in secondo piano: la gola, in certi casi, prende sempre il sopravvento e a buon ragione sulla lingua! Per realizzarli è indispensabile la consueta «sprunéla», la speronella da cucina che grazie alla sua rotellina dentata incide la sfoglia con l'abituale bordo ondulato.

26/03/14

STROZZAPRETI :Ma veramente era un augurio ai preti?

A differenza di quanto credono in molti, la parola strozzapreti non è esclusivamente romagnola, anzi: è propria di altre cucine regionali, sebbene sia riferita spesso a tipi di pastasciutta ben diversa da quella che intendiamo noi. Secondo quanto riportato dai dizionari, gli strozzapreti sono definiti sommariamente «gnocchetti di farina (e talvolta di patata) pressati, da farsi asciutti». Neppure la definizione in italiano corrisponde come si vede, con esattezza, ai nostri strozzapreti.

Strozzapreti
La loro forma è infatti talmente caratteristica, da non potersi confondere con quella di altre paste quali gnocchi ed affini, se non con alcune altrettanto tipiche e locali come i curzoli e gli stringotti. Ad ogni modo è da un'altra antica pastasciutta, oggi ormai scomparsa, che gli strozzapreti romagnoli hanno avuto origine: hanno preso il posto infatti dei bigoli (i «bigul», che nelle mille parlate di Romagna erano chiamati anche «begval», «bigval», «bigulòt», «bigie», «beghli», ecc.). Ebbene i bigoli erano e sono ancora, soprattutto in Veneto dove tuttora sono piuttosto diffusi, una sorta di spaghetti fatti in casa, ovviamente più ruvidi, più grossi e dal diametro meno regolare. Prepararli richiedeva una discreta perizia, oppure uno strumento apposito, un torchio grazie al quale si confezionavano lunghi e col foro in mezzo. Col buco o senza, il tempo li ha divorati senza pietà: minestra povera e comunque troppo «complicata» (storica la versione marinara con le sardelle), soprattutto con le esigenze di oggi per cui occorre fare alla svelta anche in cucina, ha avuto in quella degli spaghetti una concorrenza invincibile: con l'avvento e la diffusione di questi, i bigoli sono divenuti un brigoso doppione, rapidamente dileguatosì dai taglieri domestici. Gli strozzapreti ne hanno assunto così l'eredità, ma non la sagoma:abbandonata la forma a filo (bigoloquesto significa), si sono fatti più piccoli e grassoccì. prodotti semplicemente lavorando meno i tocchetti di pasta con le mani e lasciandoli corti e spessi. Dalla minestra povera e rustica hanno mantenuto l'impasto, che si compone di sola acqua e farina senza uova (e tuttavia in parecchi ristoranti, perché siano più saporiti, le uova vengono immancabilmente utilizzate). Ne esiste ana versione più gradevole, con il parmigiano e il latte al posto dell'acqua. Fatti in quest'ultima e più appetitosa maniera, tradiscono un attimo la loro denominazione: «strozzaono» molto meno non legano e non intoppano la gola, sempre chenon si esageri con forchettate eccessivamente avide e generose. Strozzare dunque: ecco da dove deriva la prima parte del nome. Tutto quello che fa nodo, «strangola». Ma perché proprio i preti? Come detto, che questa dizione sia di origine prettamente romagnola non è dlmostrabìle. È vero però che, ce ne abbia in perdono il clero, se una volta esisteva una terra «mangiapreti» questa era per tutti la Romagna. Ricollegare pertanto un simile vocabolo all'antica società di questa regione non pare neppure troppo azzardato. C'è chi racconta che, minestra semplice e di poca spesa, era la più consueta da offrire al parroco in visita all'ora di pranzo: si faceva in un baleno, costava poco e faceva sostanza. E che i preti mangiassero con ingordigia (banale diceria del popolo ateo e pagano) ingurgitandone fino quasi a strozzarsi, resta tutto da dimostrare. Certo, porgendone un piatto al religioso, l'augurio più usuale che poteva capitare di sentire, secondo la brusca ma sincera ospitalità romagnola d'un tempo, non poteva che essere: «Tnì e struzzìv, prit» (tenete e strozzatevi, prete ... ). All'inverso poi, era questa la pasta più semplice, di minor esborso e più appagante che le perpetue di alcuni parroci potessero preparare, in certe occasioni, per i poveri e gli affamati. Gli strozzapreti dunque, dalla dizione scherzosamente irriguardosa ma dalla paciosa consistenza, si sono sempre più affermati e oggi possono considerarsi senza ombra di smentita un classico della gastronomia romagnola. Non per questo si sono guadagnati l'accesso nei libri di cucina, che li snobbano quasi inspiegabilmente: anche nei tanti bei volumi romagnoli ce n'è scarsa traccia, quasi sbadatamente tralasciati in mezzo alle numerose specialità in tema di primi. Un peccato, sia perchè lo meriterebbero per qualità, sia perchè la loro diffusione è capillare su tutto il territorio. Non c'è trattoria e ristorante che non li abbia nei propri menù e più la cucina è casalinga, più sono messi in rilievo. In commercio, industriali e preconfezionati, non esistono; se li mangiate, state pur tranquilli che sono fatti in casa. E hanno una proprietà: riposti in sacchetti e messi nel congelatore, si conservano a lungo, per essere adoperati in qualunque momento si voglia e offrendosi ancor più buoni di prima. Un'ultima annotazione: recentemente si sono diffusi pure in riviera, dove vengono proposti in inconsuete ma apprezzabilissime versioni col pesce.

25/03/14

Fellini la buona tavola e i suoi film

SEMBRA più legato alle fettuccine che alle tagliatelle, ma soprattutto ama i rigatoni. Federico Fellini nella sua sterminata produzione cinematografica è un attento osservatore di vizi privati e pubbliche virtù. La tavola romagnola con le portate e le regole che la governano è stata imbandita nel film «Amarcord»

Mai però Fellini si è lasciato trasportare dal gusto di inscenare una «Grande abbuffata» alla Marco Ferreri. Se lo ha fatto si è affidato alla storia o a Trimalcione. Il suo «Satyricon» è infatti un campionario di personaggi famelici e orgiastici che amano e ingurgitano cibo in maniera feticistica. Certo gli spot per Campari e Barilla sono ben altra cosa. Raffinati esempi di pubblicità d'autore, ma messaggi niente affatto congeniali al medium al quale cercano di adeguarsi e quindi destinati ad avere un limitato impiego.
Federico Fellini al Grand Hotel di Rimini
Fellini passa dall'opulenza alla privazione della «Strada», dove più che mangiare si tenta di procurarsi cibo; all'olio di ricino di «Amarcord» punitivo toccasana che in Romagna ricorda soprattutto l'uso e l'abuso del periodo fascista. I «vitelloni» dei primi anni Cinquanta naturalmente pensavano ad addentare altro, Fellini però resterà legato alla tradizione romagnola da un filo sottile ma robusto che si può ritrovare da «Otto e mezzo» (come non ricordare il personaggio della "Saraghina" ?) a «Roma»; fino a «La città delle donne», ben lontano dal facile accostamento all'insegna della piadina e del sangiovese che tanti luoghi comuni ha prodotto. Il «maestro», come viene affettuosamente chiamato, vive a Roma e ritorna spesso nella sua Rimini anche se non ama i clamori del divertimentificio. Alloggia al Grand Hotel, dove amano servirgli la «bouillabaisse» e si rivede con la sorella Maddalena, attrice di teatro dialettale, ma approdata anche al grande schermo, che ne conosce il palato come le sue tasche. «Mio fratello Federico - dice Maddalena Fellini - è un buongustaio, mangia di tutto, ma solo se cucinato bene. Fra i piatti che gradisce ci sono le polpettine. Le poche volte che riesco a cucinare qualcosa per lui gliele preparo seguendo una ricetta di nostra madre Ida, che tiene in bella vista nel menù anche un noto ristorante romano. Sono polpette molto piccole, tonde o un po' ovali. Non bisogna usare la carne cruda, ma il bollito. Lo trito con la mezzaluna in modo che venga sminuzzato, ma mantenga la sua consistenza, poi aggiungo un uovo, pane bagnato nel latte, uva sultanina, pinoli e una grattatina di noce moscata. Le passo nel pangrattato e le friggo». Quali altri piatti ama Fellini? «Se sono buoni non si tira mai indietro. Ama i passatelli in brodo, i cassoncini fritti, il polpettone e soprattutto il pesce. Poco elaborato però, magari lessato, non impapocchiato con prezzemolo e pangrattato come fanno dalle nostre parti. A lui piace mangiarlo col suo sapore naturale, come fanno i marinai sulle barche. Non è però "sgolfanato" a tavola; sta attento al colesterolo. Ama più stuzzicare che mangiare, ma di una cosa è goloso, il minestrone. E in genere di quei piatti che gli ricordano l'infanzia. Devo dire che Giulietta Masina è bravissima in cucina e il minestrone lo sa preparare davvero bene».

Enrico Zavalloni
La madre era romana e quindi la sua cucina riusciva a fondere due tradizioni gastronomiche. Ma cosa preparava? «Si potrebbe scrivere un libro di ricette. Federico quando viene da me cerca sempre di ritrovare quei sapori. Nostra madre aveva saputo abbinare il gusto romano alla nostra cucina, rendendola meno pesante nei condimenti. C'è un piatto che fa impazzire Federico, gli spaghetti al tonno. Nostra madre li preparava con la cipolla, il sugo viene più dolce, con pomodoro, prezzemolo, ma senza aglio».

( Articolo scritto da Enrico Zavalloni, stimato giornalista, morto ForForlì il 10 Ottobre 2010 a 47 anni )



 



Il vigoroso sangue della Romagna: Il Sangiovese

IL SANGIOVESE è il vigoroso sangue che scorre nelle vene della Romagna, il vino rosso per eccellenza, capace di essere popolare ma al contempo, nelle sue produzioni superiori e pregiate, nobile e ben gradito anche ai palati più fini. 


E tale è il suo valore, che anche il superbo Chianti affida proprio al Sangiovese corpo e anima, componendosi dal 75 al 90 per cento delle sue uve. Sebbene già Plinio parlasse di un ottimo vino rosso definito "cesenate"( di Cesena), del Sangiovese si trova traccia ufficialmente solo dal 1600, mentre il nome si diffonderà due secoli più tardi. D'altronde, fino a pochi decenni fa, si era ancora soliti parlare, nelle nostre campagne, di vino rosso in contrapposizione a quello bianco senza distinguere per nomi specifici. Sulla dizione del Sangiovese esiste peraltro una curiosa storiella.
Sul colle di Santarcangelo (il Colle Jovìs) sorgeva un convento di Cappuccini. Qui, fra le diverse colture, i frati curavano anche le viti da cui traevano uno squisito vino rosso. Un giorno, in occasione di una ricorrenza sacra, venne allestito un ricco pranzo. Un ospite, colpito dalla bontà di quel nettare d'uva, chiese come fosse chiamato: e poiché quel vino non aveva in realtà alcun nome, un frate più acculturato e pronto degli altri spezzò il disagio generale, coniando su due piedi il termine "Sanguis Jovis" e cioè sangue del colle Giove. Da qui, per semplice contrazione dei due vocaboli, sarebbe poi derivato "Sangiovese".
L'ipotesi che tale dizione derivi proprio dal colle di Giove, caldeggiata da uno studioso quale lo Schurr, indimenticato tribuno dei vini romagnoli, è ripresa anche da Gianfranco Bolognesi nel suo ricco e dettagliatissimo volume "I vini del Sole". A fianco di questa teoria, che comunque resta la più suggestiva (e d'altronde quella di Sant'Arcangelo è una zona eletta per la produzione del Sangiovese) ve ne sono altre, di cui le più note sono le seguenti: per i toscani ha origine da un'altra area di buona diffusione del Sangiovese, quella di .San Giovanni Valdarno, da cui "Sangiovannese" e infine "Sangiovese". I romagnoli non vedono giustamente di buon occhio questa tesi, soprattutto se si tiene conto che i toscani il Sangiovese non lo hanno mai nobilitato quale vino a sé, ma solo come supporto. Infine, c'è chi ritiene che il nome derivi dal dio Giove, la massima divinità dei Romani: come si vede, torna di nuovo in ballo il potente e pagano Zeus. Pagano come la sua poco religiosa gente (come dice Francesco Fuschini, "Il Sangiovese è il santo più amato dai romagnoli"; potente invece come il Sangiovese stesso, il quale, ora che per fama ha finalmente varcato i confini regionali, si sta facendo la nomea di vino robusto, più forte che armonico. In realtà il suo sapore è si asciutto ma mai aspro. Alfredo Panzini nel suo "Dizionario Moderno" del 1905 lo definì anzi "vino rosso da pasto e da bottiglia, armonico nei suoi componenti, di pronta beva, gradevolmente amarognolo". Fra i suoi ammiratori più appassionati, un nome su tutti: l'illustre Aurelio Saffi, triumviro con Mazzini ed Armellini. Il conte forlivese lo produceva con le uve delle sue vigne a San Varano e lo aveva portato con successo in giro per l'Italia e l'Europa. Come ricorda Bolognesi, altri suoi estimatori e produttori famosi furono Adone Zoli (presidente del Consiglio, proprietario di preziosi vigneti a Predappio Alta) e Isaia Sancisi, un piccolo vinificatore santarcangiolese che impose con successo il suo splendido Sangiovese dei Collis Jovis sui mercati nazionali ed internazionali . Facciamo un ultimo salto indietro: i più antichi testi in cui compare il primo in assoluto è il "Trattato della vite" del toscano Soderini, del 1600, sono del XVII secolo. La denominazione si diffuse però molto più tardi, grazie ad alcune operette che il forlivese Pier Maria de' Minimi e il ravennate Jacopo Landoni composero in occasione di alcuni pranzi di nozze. Nel famoso ditirambo "Bacco in Romagna" dell'abate Piolanti è citato.

La pigiatura coi piedi in occasione
della Festa della Mostatura a
Predappio Alta. In alto, carro
allegorico preparato nella piazza del
paese per lo degustazione gratuita
del Sangiovese.
L'abate segnala pure quello "allegro" (lievemente frizzantino), rammentando "quell'uva rossa così grata che fiammeggia in Brisighella". Il vitigno del Sangiovese è diffuso oggi in tutta la Romagna, nonché in parte dell'Emilia e in certe zone della Toscana. Al di là dell'Appennino viene coltivato quasi unicamente quello ad acino grosso, mentre da noi è più diffuso quello ad acino piccolo. Parecchie le aree importanti di produzione (in questo secolo si è andato affermando sempre più il Predappiese); sono cinque infatti i tipi di Sangiovese previsti dal disciplinare della Doc (acquisita nel 1967): Sangiovese di Romagna Cesenate, Faentino, Forlivese, Imolese e Riminese. Alcune singole località note per il loro rinomato sangue di Giove, oltre a Predappio, Santarcangelo e Brisighella, sono Bertinoro, Civitella, Meldola, Mercato Saraceno (si diceva un tempo "e' mercatès l'ha divuzion pr'un sant: sanzves", ovvero "il mercatese ha devozione per un santo, Sangiovese", Modigliana, Monte Colombo, Morciano, Riolo, San Giovanni in Marignano, Savignano sul Rubicone e Verucchio. Si vede dunque, pur senza citare tutti gli altri paesi e città che ne possono vantare una buona produzione, quanto il Sangiovese scorra nelle vene della Romagna ed i suoi rivoli raggiungano ogni angolo della terra che lo partorisce. Non a caso nei boccali di ceramica faentina veniva impressa a fuoco la frase "Sanzves, amor de mi paes": Sangiovese, sapore del mio paese.
Vignaiola di Predappio alta
e la Cantina Sociale
offrono Sangiovese



24/03/14

Per mangiare le rane prima vanno pescate

A caccia di anfibi 
La pesca delle rane con la canna è ancora praticata da numerosi ravennati discendenti da famiglie di "ranucér " ( letteralmente "ranocchiaro"deriva da "ranoch" ranocchio persone che praticavano la pesca di questi anfibi per guadagnarsi da vivere vendendoli poi al mercato, già pronti per essere cotti). È una pesca che necessita di buona abilità e colpo d'occhio in quanto l'esca formata da due lumache (la parte della chiocciola che fuoriesce dal guscio) legate a 7-8 centimetri di distanza una dall'altra in fondo alla lenza non è munita di ami (voÌendo come esca si possono usare anche cavallette o "novelli" rane appena formate quando la prima "covata" comincia la propria vita fuori dall'acqua).

 La lumaca legata al termine della lenza serve per tener ferma la parte terminale sull'erba acquatica a fior d'acqua, l'altra invece con leggeri gesti del braccio viene fatta saltellare in maniera da sembrare un insetto caduto in acqua che si dibatte. La rana si avvicina e ingoia l'esca avvolgendola con la propria lingua vischiosa fatta come le "lingue di meneliche" i fischietti di carnevale retrattili. A questo punto subentra l'abilità del "ranocchiaio ": bisogna tirare su la lenza elasticamente senza strattoni in maniera che la rana continui a tenere stretta in bocca l'esca; gli si fa praticamente fare una parabola a U rovesciata al termine della quale la rana va a cadere sulla mano del pescatore che deve afferrarla al volo altrimenti (dipende dall'agilità di chi pratica la pesca) si dovrà... fare una gara a salti per catturarla.

Le rane vanno poi riposte in un cesto di vimini che si tiene a tracolla "e barasca" o in un sacchetto in tela legato alla vita "e malèt" entrambi muniti di un verso con dispositivo per non permettere loro di uscire "ingan". È buona norma deì "ranucér" di uccidere e pulire le rane al rientro dalla pesca o al massimo il mattino seguente perché, si dice, che in questa maniera le rane abbiano conservato tutto il loro sapore.
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