2, 1.. (SENECA) Cerco, vivaddio, da tempo, o Sereno, silenziosamente fra me stesso, a quale condizione dell'animo debba giudicare simile questa tua, e non saprei a quale esempio avvicinarla più che a quello offerto da coloro i quali, slegatisi da una malattia lunga e grave, sono talora toccati da piccoli accessi di febbre e da malesseri leggeri e, pur sfuggiti ai postumi del male, restano inquieti a causa dei sospetti loro; pur già sani, porgono ai medici la mano e calunniano ogni calore del loro corpo. Di costoro, o Sereno, non è troppo poco sano il corpo, ma si è troppo poco abituato alla buona salute: allo stesso modo, sussiste un tremore anche del mare tranquillo, specie quando si è quietato dopo la tempesta.
2. Non c'è quindi bisogno di quei rimedi più duri, oltre i quali già siamo passati, che cioè tu lotti in certi casi con te stesso, in altri ti adiri, in altri ti stia addosso con pesantezza, ma c'è bisogno di quel rimedio che viene come ultimo, avere cioè fiducia in te e credere di andare per la retta via, senza fartiaffatto distogliere dalle orme trasverse di molti che vagolano qua e là, di certuni che vagabondano proprio intorno alla retta via.
3. Ciò di cui senti bisogno, è cosa grande e somma e vicina alla divinità, non lasciarsi cioè scuotere. Questa stabilità dell'animo, i Greci la chiamano euthimia e su di essa c'è un egregio libro di Democrito; io la chiamo «tranquillità»: non c'è infatti bisogno di riprodurre e di tradurre i vocaboli secondo la forma dei Greci; il fatto in sé (di cui viene trattato) occorre segnarlo con un nome, che della definizione greca deve avere il valore, non 1'aspetto.
4. Dunque, noi cerchiamo in che modo, con un corso uniforme e senza ostacoli, 1'animo possa procedere, sia benevolo con sé stesso, veda con letizia le cose sue, e questa gioia non la interrompa, ma rimanga in uno stato placido non elevandosi né deprimendosi mai: questo sarà la tranquillità. In che modo sia possibile giungerei, cerchiamolo in generale: della medicina disponibile per tutti, ne prenderai quanto ne vorrai tu.
5. n difetto, in tutto il suo complesso, frattanto, bisogna trascinarlo fuori e metterlo in vista per tutti, e da questo ciascuno riconoscerà la parte che gli compete; contemporaneamente, tu capirai quanto minor problema comporti per te la scontentezza che hai di te stesso, rispetto a coloro che, legati alla loro professione piena di apparenza ed affaticati sotto una grossa etichetta di dignità, è il pudore, più che la loro volontà, a trattenerli nella loro finzione.
6. Tutti si trovano in questa medesima malattia, sia quelli sballottati dalla leggerezza e dal tedio (unito ad un continuo cambiamento di propositi) e ad essi piace sempre più ciò che hanno lasciato, sia quelli rammolliti e che sbadigliano. Aggiungi coloro che, non diversamente da chi ha il sonno difficile, si voltolano e si adagiano in questo ed in quel modo sino a quando non trovano finalmente quiete a causa della stanchezza: dando allo stato della loro vita di volta in volta altra forma, restano alla fine in quella in cui li sorprende non 1'odio per il mutamento, ma la vecchiaia,che è pigra di fronte alle novità; aggiungi anche coloro che troppo poco cambiano, non per colpa di costanza nei propositi, ma di inerzia, e che di conseguenza vivono non come vogliono, ma come hanno incominciato.
7. Innumerevoli sono, una dietro l'altra, le particolari caratteristiche, ma uno solo il risultato del difetto, non essere in pace con sé stessi. Questo nasce dallo squilibrio dell'animo e da desideri timidi o troppo poco soddisfatti, quando o non osano quanto bramano, oppure non lo conseguono, e si protendono totalmente verso la speranza: sempre instabili sono ed in movimento, il che deve per forza accadere a chi è sospeso in bilico. Ai propri voti tendono per ogni via, cose disoneste e difficili si insegnano e ad esse costringono sé stessi, e quando la loro fatica resta senza premio, li tormenta l'inutile disonore, e non si dolgono di aver voluto cose storte, ma di averle volute inutilmente.
8. In quel momento, li afferra il pentimento di ciò che hanno intrapreso e la paura di cominciare e si avvicina strisciando quella agitazione dell'animo che non trova uscita, poiché essi non sono in grado di comandare i loro desideri né di sottostarvi, e l'esitazione di una vita che riesce troppo poco ad esternarsi e, fra desideri frustrati, la muffa di un animo fatto torpido.
9. Tutto ciò è più grave, quando per odio verso un insuccesso, che è costato fatica, si sono rifugiati nella vita appartata, nelle solitarie attività intellettuali, insopportabili per un animo proteso all'azione politica, desideroso di agire e per natura incapace di immobilità, che in sé evidentemente ha troppo poche consolazioni. Perciò, tolte di mezzo le gioie, che proprio gli impegni offrono a chi si muove di qua e di là, l'animo di 34 costoro non sopporta la casa, la solitudine, le pareti, contro voglia vede di essere stato lasciato solo con sé stesso.
10. Di qui nasce quella noia e quella scontentezza di sé, quel rivoltolarsi dell'animo, che non si placa in alcun luogo, quella sopportazione malcontenta e malata del proprio ozio, soprattutto quando ci si vergogna di confessame le cause ed il pudore ha spinto all'interno i tormenti: i desideri chiusi allo stretto e senza via d'uscita, da soli si strangolano. Di qui nasce la tristezza ed il torpore e quell' ondeggiamento di una volontà incerta, che le speranze cominciate tengono in bilico, quelle fallite nell'afflizione; di qui la disposizione d'animo di coloro che maledicono la loro vita appartata .e che si lamentano di non avere personalmente niente da fare, e l'invidia ostilissima ai progressi altrui nella carriera: alimenta infatti il livore un'inerzia senza frutti, e desiderano che tutti crollino, perché loro non furono in grado di fare carriera.
11. Per questo rifiuto dei successi altrui e per questa disperazione dei propri, l'animo si fa iracondo contro la fortuna, si lamenta del proprio tempo, si ritrae nei cantucci e sta tutto addosso alla propria pena, mentre si annoia di sé stesso e se ne rincresce. Per natura, l'animo è portato ad agire ed è propenso al movimento; grata gli è ogni materia per mettersi in moto e per distrarsi; più grata ancora lo è ai peggiori caratteri, che volentieri si logorano sfregandosi nelle occupazioni: come certe piaghe desiderano le mani che pur nuoceranno loro, godono al tatto, e la sconcia scabbia dei corpi tutto ciò che la esaspera l'allieta, non diversamente direi che per quelle menti, in cui i desideri sono soliti scoppiare fuori come cattive piaghe, la fatica e lo sballottolio sono motivo di piacere.
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13. Per questo motivo si intraprendono viaggi vagabondi e si vaga per spiagge fuori mano ed ora per mare ora per terra fa esperienza di sé la volubilità, sempre ostile a ciò che è presente. «Ora andiamo in Campania »: ormai le cose raffinate sono motivo di fastidio; «Si vada a visitare zone selvatiche, raggiungiamo le giogaie della Calabria e della Lucania». Ma nelle zone desolate si cerca qualche cosa di allettevole, in cui gli occhi abituati al lusso si sollevino dal lungo squallore di orridi luoghi: «Si vada a Taranto, al suo celebrato porto, al soggiorno invernale di un clima più mite e alla regione ricca a sufficienza anche per la moltitudine dei tempi antichi»; «Pieghiamo ormai la nostra rotta verso Roma: già troppo a lungo le orecchie sono state libere dagli applausi e dal fragore; ormai ci piace godere del sangue umano».
14. Si intraprende un viaggio dopo l'altro, si cambia uno spettacolo dopo l'altro. Come dice Lucrezio: «In questo modo ciascuno fugge sempre sé stesso»: ma che gli giova, se non riesce a sfuggirsi? tiene dietro a sé stesso ed incalza come pesantissimo compagno.
15. Dobbiamo pertanto sapere che non è difetto dei luoghi quello per cui ci affliggiamo, ma nostro: siamo deboli a tollerare ogni cosa né sappiamo sopportare la fatica né il piacere né noi stessi né alcuna cosa abbastanza a lungo. Questo difetto spinse alcuni alla morte, poiché, cambiando spesso propositi, rotolavano indietro verso le medesime posizioni e non avevano lasciato posto alla novità: a noia cominciò a venire loro la vita e persino il mondo, e si insinuò quella domanda, che è propria di una marcia raffinatezza di vita: «Fino a quando le medesime cose?».