04/10/14

Il combattimento meditativo | LE TRE VIE

... a questo punto sopravvengono i testi dell.o yoga e del Tantra a promuovere infine la liberazione.[Qui]


IL COMBATTIMENTO MEDITATIVO
Fin dal VII secolo si ha testimonianza di yogin dediti alla lotta e alla vita militare, i loro luoghi di allenamento e di ascesi erano chiamati tane, àkhara. La loro trafila si faceva incominciare da Sankara. Spesso si trasformavano nello Siva furibondo, Bhairava. Su di loro scese inesorabile la repressione inglese. I lottatori indù sopravvivono oggi in associazioni legate a riti speciali in onore di Hanumat, celebri quelle del Kerala. La tecnica credo non si sia mantenuta saldamente, forse s'è sfaldata, ma è possibile ricostruirla raccogliendola là dove si diffuse col buddhismo lungo i secoli, prima in Cina, quindi in Giappone.

D'acchito una sorgente delle arti marziali si cercherebbe nella Cina stessa, l'adepto che me le illustrava a Taiwan si richiamava soltanto al taoismo; una fonte potrebbe sembrare Chenjaogou nello Henan, villaggetto di duemila abitanti di cui quasi tutti praticano intensamente il pugilato taiji. Il nome stesso taiji risale al Libro dei mutamenti, ma la tecnica non è di necessità cinese e la trasmissione, a partire da Chen Bu, dura soltanto da trecento anni. Consiste in un sistema di mosse sovrapposte alla lotta popolare wugong, prospettate entro un'ideologia perfettamente cinese di mediazione ininterrotta fra atteggiamenti aperti e chiusi, sciolti ed energici, lenti e rapidi, dritti e curvi; ma non è sicuramente e interamente cinese: l'origine mi pare si trovi in India e il tramite che ne permise l'introduzione furono i missionari buddhisti, si dice a principiare da Bodhidharma, nel VI secolo.

Il centro da cui si diffuse questa lotta fu il monastero di Shaolin, ancora oggi pienamente attivo, donde ebbe inizio la tradizione del gongfu e soprattutto il wushu, il cui fine è, come dice Yu Gongbao, raddolcire ogni movimento con mente sciolta e attenta, respiro lene e profondo. Ne sorsero truppe di monaci micidiali, che condussero campagne militari facendosi forti di questa loro tradizione. Imparavano e ancora imparano, commisurando la respirazione, a spezzare mattoni, un particolare che spinge a ravvisare nella loro lotta mistica l'origine del karate, tecnica adottata dai nobili di Okinawa, assai ligi alla Cina, allorché il loro sovrano vietò di portare armi. Il primo circolo di karate giapponese è addirittura del 1905. L'arte fu vietata dagli alleati, ripresa nel 1955, rifiorì in maniera sorprendente. Insegna colpi col pugno, col palmo, col gomito, con l'avambraccio.

L'avambraccio cala fendenti che spezzano mattoni o blocchi di legno. Dice un maestro giapponese: il vero combattente di karate si fonde con l'avversario, come in transe: è simile a un folto di alghe in fondo al mare, ogni fremito d'acque lo piega; sviluppa una sensibilità sottile. Chi risponde ai colpi inferti è sempre in ritardo, occorre avvertire la minaccia prima che si scatti, sviluppando questa trasognatezza sensitiva.

Il pugilato cinese, arma dei patrioti durante l'oppressione mongola e mancese, si fa risalire al monaco buddhista Bodhidharma. Nel VI secolo però lo si insegnava come esercizio di consapevolezza mattutino, per cui si situava nel punto fondamentale nella pancia per irradiarlo di lì nel palmo delle mani, a imitazione dell'oca selvatica. Fondamentale è mantenere la posa del cavallerizzo, eliminando ogni pensiero vagante, esalando con grande lentezza e inspirando di botto, imitando via via il drago, la tigre, il leopardo, il serpente e la gru.

Nella fase serpentina si diventa tutt'insierne un durissimo acciaio e una duttile corda, ma il culmine è l'imitazione delle gru: la forza si aspira dalla pianta dei piedi, le spalle cadono con dolcezza, la mente dardeggia dal cuore tranquillo e l'eccellenza si raggmnge quando le mosse scattino così svelte da non essere viste. La pratica fu importata in Giappone insieme allo Zen, informa Suzuki.
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