Il Mahābhārata per lo più distingue bhakti da liberazione e tuttavia al sommo maestro Nàrada Nàràyana, la personificazione della creatività, svela che chi lo ama entra in lui e in tal maniera si libera. Così, nella parte del Mahābhārata intitolata Bhagavadgità, Dio come Krsna esorta: «bhajasua màml . (IX, 33),« partecipa di me, amami! ». Bhandarkar spiegò l'esortazione come un tentativo di compromesso fra i primi bhaktici e l'ortodossia. A questo punto il bhaktiyoga diventa il seguito di due momenti: la rinuncia al frutto delle azioni e al carattere di persona responsabile da parte del fedele; la sua dimora in Krsna, cui pensa con devozione (bhajana) piena e rovente, sicché lui e il dio diventano cari (przya) l'uno all'altro.
Soltanto questa pratica elimina sgomento, illusione, oblio e aiuta a sottomettere definitivamente le percezioni sensibili. All'apogeo della devozione l'occhio del fedele si trasforma, diventa capace di scorgere l'intero universo nel corpo di Krsna, visione che dapprima suscita meraviglia, quindi fa rizzare i peli ihrstaromans, largendo una gioia sfrenata. Nel Naradapaacaràtra Krsna è adorato come fanciullo nel mondo delle bovare (gopy) innamorate e delle mucche divine; la bhakti si sviluppa via via come ricordo del dio, menzione del suo nome, prostrazione ai suoi piedi, culto di lui, ascolto delle sue lodi, senso di servitù nei suoi confronti, e infine associazione a lui (sakhya), che conduce alla capitolazione dell'anima.
Il testo canonico della bhakti, il Bhāgavata Purāṇa, fu scritto forse fra i secoli IX e X, forse in Tami] Nàdu: vi si narra di Krsna, esaltando al di sopra dei sacrifici vedici il culto della sua sembianza. Il devoto è incitato a imitare le bovare folli, che abbandonano la norma sociale (dharma) scegliendo esclusivamente l'amore, e non al fine della liberazione. La liberazione è una semplice conseguenza dell'inondazione di beatitudine, della fissità estatica appuntata al Signore. L'amor di Dio è l'estrema intensificazione del sentire, la bhakti sostituisce la liberazione come fine dell'esistenza, in genere a partire dalle grandi ondate di bhakti che spazzarono l'India meridionale fra il VI e il X secolo.
Esse furono promosse nel Tamil Nàdu da menestrelli devoti chiamati alvar, i « profondi », gli « immersi », vissuti, secondo la tradizione, dopo la morte di Krsna (3102 a.G.), e le cui canzoni formano il Veda tamil. Si offrivano al Signore come donne all'amante; la poetessa nuda, Antàl, celebrò perfino le nozze con Lui. « Quando è stato frullato il mare? Per quale terra è stata ricevuta l'acqua? Non ne capisco nulla. Ma quello è il mare su cui Tu dormi dopo averlo allora sbarrato con un ponte che poi hai fatto a pezzi! Questa è la terra che Tu hai creata e sollevata e inghiottita e vornitata»! -dice Poykaiyàlvàr, nella versione di:
Emanuela Panattoni, e conclude: « Hai visto, mio cuore? Mal [Visnu] dai rossi occhi è merito e colpa, entrambi. Egli è ogni apparenza esteriore, è questa terra, è il mare ondoso, è il vento, è il cielo. Capiscilo con sicurezza, indefettibilmente! ». Pùtattàlvàr esprime l'universale gioco emblematico: la conoscenza ha una coppa, l'amore; ha un olio, il desiderio; e infine uno stoppino, « la mente che si consuma di beatitudine ». Di qui procede a cantare la vita di Krsna con allegria travolgente.