Gli anni dal 54 al 60 videro il diffondersi con successo dei suoi scritti fra la gioventù colta di Roma. Particolare rilevanza ebbero il De clementia e il De beneficiis (taluni critici li collocano però tra il 62 e il 64), in cui il filosofo auspica, fra l'altro, una soluzione di compromesso tra il principio monarchico e gli ideali repubblicani.
Dopo la morte di Agrippina, Seneca si avvide che non era più possibile volgere al meglio l'indole dispotica e crudele di Nerone e frenare l'involuzione dell'Impero da monarchia illuminata a tetra tirannide. Perciò si allontanò, sia pure gradualmente, dalla vita pubblica fino alla rinuncia ad ogni attività di governo dopo la morte di Afranio Burro e la nomina di Sofonio Tigellino a nuovo prefetto del pretorio.
Ritiratosi a vita privata, Seneca riprese con rinnovato ardore i suoi studi: concluse una ponderosa opera di argomento naturalistico, le Naturales Quaestiones e dedicò all'amico Lucilio una raccolta di centoventiquattro lettere, la sua più importante opera filosofica, una vera summa del pensiero senecano. Nel 65, accusato di avere partecipato alla congiura ordita dal patrizio romano Gaio Calpurnio Pisone contro l'imperatore, Seneca ricevette da Nerone l'ordine di togliersi la vita.
Allora il filosofo affrontò la morte insieme con la propria consorte Pompea Paolina - che ne fu poi impedita probabilmente per ordine dell'imperatore - dimostrandosi degno assertore delle più nobili tradizioni etiche romane e dei principi filosofici dello stoicismo, sostenuti nell'ora suprema con socratica dignità di maestro. Con questa sua morte Seneca riscattò nel migliore dei modi gli errori e le debolezze cui non aveva potuto (o voluto) sottrarsi durante gli anni dell' attività politica.
Un lettore di Seneca potrebbe chiedersi quale valore abbiano le indicazioni e i precetti di un uomo che visse e operò talvolta in modo così contraddittorio, anche se gli si può accreditare la buona fede nel cercare entro i limiti delle proprie capacità di lottatore il trionfo di quegli ideali di umanità e di tolleranza, di comprensione degli altrui bisogni, su cui si fondava la sua preparazione di filosofo e di cittadino. Ma non si può chiedere ad alcuno di essere un eroe e come non pretendiamo di conoscere la vita privata di un medico del quale seguiamo le prescrizioni, così non è lecito chiedere a Seneca, il medico dell'anima, come è stato definito, di giustificare le proprie azioni, il proprio comportamento.
«Sono un uomo» diceva Seneca «nulla di umano ritengo mi sia estraneo.» Il filosofo si pose questo problema e nel De vita “La vita felice”, XVIII,I), indirizzata al fratello Novato, ora chiamato Gallione dal nome del retore Giunio Gallione che lo aveva adottato, così si espresse rintuzzando una delle solite accuse: «"Altro sono le tue parole, altro la tua vita!" Ma questo, o gente maligna e nemica di chiunque sia migliore, fu rinfacciato a Platone, a Epicuro, fu rinfacciato a Zenone. Orbene, tutti costoro non dicevano del modo come essi vivessero, ma come dovessero vivere. lo non parlo di me stesso, bensì della virtù e combatto i vizi, anzitutto i miei propri: quando ne avrò la forza, vivrò come si deve».