16/11/13

Tra "Falchi e Colombe" chi si salverà dal "Cacciatore"?

La mattinata è bollente, ogni testata editoriale riporta in prima pagina la scissione del Pdl.
Difficile scegliere un articolo da proporvi, visto la notizia monocromatica, ma un articolo di Ugo Magri della Stampa, mi ha almeno divertita. Ve lo riporto in forma integrale perchè vale la pena di leggerlo tutto, subito dopo a qualche titolo di alcuni quotidiani, giusto per farvi un'idea dell'argomento. Buona lettura.

Falchi e Colombe
Pdl, Berlusconi: “Se avessi il passaporto me ne andrei ad Antigua” Parola del leader del Pdl che, secondo il Corriere della Sera, vorrebbe volare verso il sole dei Caraibi. Non per uscire dal groviglio di inchieste e indagini da Milano a Bari o lasciarsi alle spalle la condanna in via definitiva Mediaset, la decadenza e tutto il resto, ma per evitare la lunga scia di veleni, annunci e smentite di scissioni, divisioni tra vari animali della giungla politica. [il fatto Quotidiano]

Lo strappo è consumato. ”Mi trovo qui per compiere una scelta che non avrei mai pensato di compiere. Non aderire a Forza Italia“. Sono le parole con cui Angelino Alfano, nel corso della riunione dei governativi del Pdl, annuncia la nascita di gruppi autonomi che si chiameranno “Nuovo centrodestra” [il fatto Quotidiano]
Il "Nuovo centrodestra", gruppi in crescita e logo tricolore Così gli scissionisti guidati da Alfano, pre ora 30 senatori e 26 deputati, vogliono rubare la scena a Berlusconi. In pole per la carica di capogruppo Costa alla Camera e Bianconi al Senato. Tutti si chiedono cosa farà Gianni Letta- [R.it]

Il vicepremier: "Non è partito del '94". E prevede: "Saremo attaccati, ma non avremo paura". Alla vigilia del Consiglio nazionale, lettera del Cavaliere ai parlamentari: "Chi non condivide nostri valori vada via". Poi tutto precipita. No dei lealisti all'accordo che avrebbe dovuto separare la decadenza dell'ex premier dalla sopravvivenza del governo. Formigoni: "Siamo 37 a Senato, 23 alla Camera. [R.it]

L’ultima mediazione fallita tra il Cavaliere e l’ex delfino 
Roma
Come in ogni thriller, c’è un momento della verità che nella mediocre scissione del centrodestra va collocato intorno alle cinque del pomeriggio. In una stanza del Mausoleo (la nuova sede berlusconiana) sono tutti adunati i «falchi»: c’è Fitto, c’è la Carfagna, c’è Brunetta con Capezzone, più Verdini e la Gelmini. Squilla il telefono, è Berlusconi, mettono subito in vivavoce: «Sentite, mi trovo qui con gli amici ministri che sono venuti tutti quanti a Palazzo Grazioli», spiega Silvio con un tono della voce che è molto difficile da decifrare, «e abbiamo parlato di come uscire da questa situazione... Perché io non voglio fare del male a nessuno, non intendo essere l’ostacolo, il problema», e qui è parso ad alcuni di cogliere dell’ironia, addirittura una vena di sarcasmo mentre lo diceva, «forse per questo motivo dovrei fare un passo indietro, perché mi si propone di mettere nero su bianco che io accetterò la decadenza senza nemmeno far cadere il governo». Pausa, e poi: «Dovrei convocare l’ufficio di presidenza stasera stessa, alle 21, per approvare un documento dove si stabilisca che la sorte del governo non dipenderà dalla mia, e dove si affidi la gestione del partito a tre coordinatori nazionali, uno per ogni corrente... Che ve ne pare? Posso dire a questi amici che pure voi siete d’accordo?». Non fa in tempo a completare la frase, che già Brunetta (testimonia una ministra sbigottita all’altro capo del telefono) dà in escandescenze, il cui senso è: non se ne parla nemmeno. Prende la parola Fitto, il capo dei «lealisti», che raramente alza la voce ma stavolta fa eccezione: «Presidente, ma siamo tutti quanti impazziti? Giurare fedeltà al governo significherebbe consegnare la tua pelle ai nostri avversari, vorrebbe dire rassegnarsi a prendere ceffoni tutti i giorni per gli anni a venire». Non appena l’eco delle parole di Fitto si spegne, con un sorrisetto il Cav si gira verso i ministri accomodati nel suo studio principesco: «Vedete? Ve l’avevo detto, loro non sono d’accordo...». Si china sull’interfono e, senza neppure un tentativo di insistere, di esercitare la propria moral suasion, annuncia ai «falchi»: «Va bene, ne prendo atto». Fine della telefonata. Nel Mausoleo scoppia una grande risata liberatoria, «è fatta, grande Silvio, li ha presi di nuovo per i fondelli...». Alfano, la Lorenzin, Lupi e la De Girolamo fuggono via da quel luogo (il solo Quagliariello si trattiene qualche minuto in più, salvo dileguarsi poco dopo quando arrivano festanti i «falchi»), e la scena si sposta all’ex albergo Santa Chiara, dépendance del Senato, dove una sessantina di parlamentari ribelli sono in trepida attesa in una saletta dalle poltrone di velluto rosso e un tavolo in fondo dove nessuno osa sedere. Temono il grande pastrocchio, il finto accordo che aleggia fin dalla mattina, il ritorno sommesso all’ovile che significherebbe per tutti loro una fine politica certa, dal momento che mai più verrebbero ricandidati. Anche per questi dissidenti, dunque, la rottura appena consumata è un sollievo, la certezza che una pagina si chiude e un’altra se ne aprirà. Tuttavia permane il dubbio, l’ultimo: «E se Berlusconi cambierà idea? Se stasera nonostante i “falchi” convocherà l’ufficio di presidenza, noi che faremo?». Il tormento si trascina fino alle 19 e 30. Squilla il cellulare di Quagliariello, di nuovo è Silvio. Il ministro fa segno di tacere un attimo, cala il silenzio. Dal gracchiare del telefono si capisce che Berlusconi sta sostenendo qualcosa tipo: «Ce l’ho messa tutta per provare a convincere i “falchi”, sono stato con loro fino adesso, ma purtroppo non solo non sono disposti a tenere quest’ufficio di presidenza, ma addirittura mi hanno detto che, se insisto, la riunione me la faccio da solo...». Finisce così, con queste parole non si capisce se dispiaciute o compiaciute, un ventennio di storia patria. Alfano parla con Schifani, che di lì a poco si dimetterà da presidente dei senatori Pdl. Va al microfono, in piedi annuncia la nascita dei gruppi autonomi, confessa che mai avrebbe immaginato di vivere un momento del genere. Si vede quanto è provato, quasi distrutto. Lo applaudono più volte, «forza», «coraggio». Finisce il discorso con dignità, citando un passo della Bibbia, come avrebbero fatto i democristiani di un tempo. E Naccarato, che della Dc fece parte al fianco di Cossiga, corre euforico fuori dalla sala annunciando ai giornalisti: «Habemus papam!».                                                                                                                    ugo magri
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