IL PRESUPPOSTO
Attrasse in Occidente seguaci fedeli via via dalla fine del Settecento la filosofia indù, si può dire dal 1789, quando i Veda entrarono fra le opere della British Library. Suo culmine fu la diffusione californiana degli anni settanta. Ne sprigionò perfino un'utopia, dichiarata nell ultimo romanzo di Aldous Huxley, assai amabile, perfino prossima a un possibile progetto, ma d'uno stile così sciapo che si tende a dimenticare. Nell'VIII secolo Gaudapàda e Sankara e, ancor prima di loro, Nàgàrjuna enunciarono la più rigorosa, mi pare, delle filosofie; non ne conosco di altrettanto conseguenti e soddisfacenti, globali e persuasive in Occidente, dalla Grecia ad oggi. La riforma e regge un indirizzo unitario: non divaga, non pencola e non ondeggia, è protesa a un fine, organizza ogni pensiero attorno a un nucleo che chiama «liberazione», scopo ultimo e massimo dell'esistenza. Così facendo, instaura un ordine inflessibile nel pensare, parte dalla certezza che lo scorrere della vita può acquietare ed esaltare se gira su d'un asse. « Liberazione » in sanscrito si dice moksa che si può tradurre anche «emancipazione »; nelle Upanisad prese il significato di rilascio dall'esistenza mondana e dall'incessante trasmigrare.
Passò quindi a denotare il rivelarsi improvviso d'un pianeta eclissato, l'allentarsi d'una chioma raccolta, l'estinzione d'un debito, lo scoppio di lacrime o il getto di sangue, la dispersione, il lancio, l'abbandono. C'è anche il significato di morte sullo sfondo. Prezioso è che moksa sia un nome dato alla montagna cosmica, il Meru, squisito traslato del significato maggiore. In pali mokkha significa anche « salvezza». La parola origina da moks-, «desiderare di affrancarsi, disfare, far scorrere, scagliare ». È interessante che in gujaràti questa radice produca il significato di « spazio aperto che consente di liberarsi da una folla », metafora esemplare della liberazione. In pali muiicati (secondo il vocabolario Rhys Davids - Stede) vuol anche dire « pulire, purificare, togliere il giogo, lasciare ». Andando a ritroso, si giunge all'indoeuropeo meuk-, « sdrucciolevole », che dà luogo a parole che indicano lo sfuggire; in russo ecclesiastico m'knuti sja, «passar via», in anglosassone smùgan, «strisciare».
Si ricostruisce l'origine della «liberazione»: la vita sociale quotidiana appesantisce chi vi sia soggetto, infliggendogli una sequela talvolta disperata di coazioni, ma giunge finalmente l'età in cui l'Indù se ne affranca. Il suo ordine sociale prevede che egli assolva tutti i doveri: procrei, lavori, assesti la famiglia, dopo di che può allontanarsi libero nella foresta; spoglio e dimentico potrà finalmente raccogliersi, meditare, offrirsi alla morte imminente: vivrà in pieno, senza ostacoli, esonerato da ogni pendenza, coincidendo interamente con il nucleo di felicità che pure nel corso dell'esistenza affannosa l'ha sorretto, illuminato, consolato, anche se non vi si è mai potuto adagiare. Questa soluzione soddisfa la società e gli dèi, l'uomo martoriato dai doveri finalmente è prosciolto. Ancora oggi gli Indù osservanti si avviano a una certa età verso la selva ospitale. L'evasione esprime il valore più prezioso e intimo: in vista di questo proscioglimento finale i giorni più luttuosi e tormentosi furono sopportati. Ma che cos'è che si abbandona?
Certo, tutti gli obblighi, ma anche qualcosa di più intrinseco: l'istinto che fa scattare la presa, che annebbia, infervora, accende i tormenti del desiderio. Nella foresta questo cruccio si potrà finalmente dissipare. La Yisnusamhità dichiara che, con una soave insistenza nel deviare i sensi dai loro oggetti, gli istinti più radicati (vasanii) si estinguono, e Rùpa Gosvàmin conferma che la devozione estirpa le radici del peccato. Nel buddhismo la cessazione degli istinti fu chiamata nirvàna .. Tuttavia l'opera da perfezionare è più complessa: si dovrà dimettere anche l'idea di persona. Un'osservazione accurata dovrebbe aver insegnato che la persona non esiste, è un raggiro della società, che ci vuole addossare i suoi doveri. La continuità nel nostro modo di reagire e atteggiarci è illusoria, esso varia senza .tregua, si inverte a ogni sorpresa, mentre il corpo si trasforma incessantemente e l'anima, al trapasso da un'epoca all'altra, appare diversa. Inoltre, come un compagno invisibile, ci scorta l'inconscio, voragine buia, inimmaginabile, nella quale un fatterello da nulla può precipitarci a ogni momento.
Fatterello da nulla può anche essere la lacerazione d'una venuzza cerebrale un'alterazione o infatuazione o ossessione che sovverta interamente ciò che sembriamo essere. Nel nostro ,organismo precario sprizza però un attimo di attenzione, che riesce perfino a rendersi indipendente dal programma stampato nelle cellule. E simile al punto inesteso che determina linee, superfici, corpi a tre dimensioni, tutto ciò che occupa lo spazio. Ogni conoscenza coerente del reale esige sempre un salto indietro di questo genere. Dalla manifestazione si deve poter passare al non-manifestato e nelle scienze, per spiegare le leggi della luce e della gravitazione, si prospettano dimensioni ipoteticamente reali, impercettibili, accanto a quelle nelle quali viviamo; anzi dal 1984 si parla addirittura di dieci dimensioni del genere, che spiegherebbero unificandole le quattro forze fondamentali (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare forte e debole).
Questo attimo d'attenzione non è un momento della veglia, perché non considera lo spettacolo che si osserva da svegli l'unica realtà, anzi sa che esso è tutto permeato di sogni, illusioni, utopie, i quali presentano, alterandole, le comunicazioni dei sensi, il piccolo frammento a noi dischiuso di ciò che ondeggia nello spazio. L'attimo d'attenzione non crede al sogno, perché sa che esso è smentito al risveglio. Non è nemmeno immerso nel sonno, anche se con questo ha qualche tratto in comune: è distaccato, indifferente, remoto, ignora il tempo che avanza, pur essendo pienamente vigile. Come descriverlo? Nel grande poema filosofico Yogavasistharamayana si dice che nell'uomo liberato cessano i desideri come nel sonno profondo, egli pensa come se niente esistesse, non aspetta il futuro, non affonda nel presente né ricorda il passato, è desto dormendo e nella veglia dorme. Assorto in se stesso, ha rinunciato a rivendicare le azioni compiute, non si illude d'essere attivo, non prova antipatia o simpatia, dolore o piacere. Si atteggia in modo conforme alla persona con cui tratta, giocherà col bambino, sarà serio con l'anziano. Sempre amabile, benché interiormente acquietato, dispiegherà compassione e affetto.
Tutto è definito a partire da un presupposto, l'assorbimento nell'interiorità. La calma attenzione si pone al centro della vita. Come precisare questo attimo d'attenzione? Non è concesso di determinarlo, misurarlo, pesarlo. Eppure, se non lo attingessimo mai, nemmeno lievemente e distrattamente, non ci sarebbe dato di abbracciare tutte le nostre potenzialità, veglia, sonno e sogno, senza peraltro identificarci in nessuna di esse. Non si è infatti desti nella liberazione, perché non si scambia per vero ciò che si percepisce, ma non si è nemmeno addormentati, perché si rimane vigili, e nemmeno si sogna, essendo presenti al mondo. La mente si arresta incredula, quasi immobilizzata all'interno di questa limpida specola che somiglia al punto senza spazio da cui parte la geometria (contraddizione in termini, senza la quale però la geometria non si costruisce), tanto che Bharatri, un filosofo di poco posteriore a Sankara, negava che ci si potesse liberare in vita, come certa teologia cattolica nega la visione beatifica prima della morte. La questione è di una portata sconvolgente: la teoria di Bharatri fa vacillare il sistema classico indù introducendovi un prospetto di vita dopo la morte, e chi l'accetti si danna al delirio.
Secondo i più, sapremo organizzare il mondo soltanto se sapremo concepire quello stesso punto d'attenzione impersonale, di là da tempo e spazio, dove alla fine dell'esistenza attiva si rifugia per quanto gli è dato l'Indù, e sul quale è fondata la filosofia che gli ordina la realtà in maniera limpida e razionale.