Con il capitolo secondo ha inizio la diagnosi e successivamente la terapia proposta dal filosofo.Il primo passo per riconquistare la tranquillità interiore, per essere in pace con se stessi è avere fiducia nelle proprie forze e attenersi al principio di non tendere mai oltre le possibilità del proprio lo e di non deprimersi per alcuna ragione. In questa condizione di giusto equilibrio fra i due stati d'animo consiste la tranquillità. Ma per giungere a tanto occorre scavare nell'animo e nella coscienza, valutarne le risorse senza rifuggire da se stessi, senza cercare inutili evasioni per esempio in viaggi senza meta nei luoghi più diversi. Certo, 1'evasione è possibile e auspicabile, ma solo dopo che si è divenuti padroni di sé, della propria volontà: «Non è difetto dei luoghi quello per cui ci affliggiamo, ma nostro: siamo deboli a tollerare ogni cosa né sappiamo sopportare la fatica né il piacere di noi stessi né alcuna cosa abbastanza a lungo».
Seneca svolge i propri consigli passando in rassegna i precetti più significativi della filosofia stoica, dall'impegno nell'attività politica, come insegna Atenodoro di Tarso, maestro di Augusto nella filosofia, al ritiro graduale dalla vita pubblica, senza però piegarsi eccessivamente - raccomanda Seneca - all'inclemenza dei tempi e darsi troppo presto alla fuga. Anche con il silenzio si può essere utili ai concittadini. È un suggerimento particolarmente valido oggi, nell'epoca dei mezzi di comunicazione di massa. Come norma generale, «la cosa di gran lunga migliore », osserva il filosofo, «è mescolare l'inazione all'azione ». In ogni caso non dobbiamo lasciarci seppellire dall'inerzia, ma essere utili a tutti a ogni livello di attività, soprattutto nella cerchia degli amici e tra le pareti domestiche. La torre d'avorio non si addice, come qualcuno potrebbe pensare, a un vero seguace dello stoicismo.
Ma attenzione, occorre sapere usare nel modo più opportuno della propria libertà, operando sempre con moderazione, senza passare nevroticamente da una cosa all'altra per tendere a mete irraggiungibili in cerca di qualcosa che poi potrebbe lasciarci delusi. Seneca dipinge con accenti di ironia quelle persone che si affannano correndo a destra e a manca tutto il giorno per tornare infine a casa senza più energie. A questo proposito viene in mente una favola di Fedro (Cesare e il portinaio ) in cui il poeta, contemporaneo del filosofo, scrive nei versi iniziali: «C'è di faccendieri a Roma tutta una genia, che si affanna a correre di qua e di là occupata nell'ozio, chissà perché ha il fiatone, fa molte cose, nulla combina, di peso a se stessa e insopportabile agli altri». Fedele alla tradizione e sulla scia di Cicerone, Seneca inquadra la trattazione dei vari temi nella realtà romana. È perciò naturale il ricorso a esempi romani che si giustappongono a quelli del mondo greco.
Anche il tema dell'amicizia è toccato con sottile penetrazione psicologica. Luoghi comuni della filosofia epicurea e stoica, ma non meno utili per la cura dell'anima, sono fra gli altri, la parsimonia, l'elogio della semplicità e della continenza, il frenare l'iracondia, la frugalità. Il consiglio di scegliere oculatamente buoni libri conviene quanto mai anche ai nostri tempi di librerie stracolme e di letture affrettate. Seneca si lamenta che «i libri non sono strumenti di studio, ma ornamento per sale da pranzo. Si appresti dunque un numero sufficiente di libri, nessuno in funzione di suppellettile». Un atteggiamento di importanza capitale per riconquistare la perduta serenità è l'accettazione del proprio destino nella convinzione che tutto è legato alla fortuna, intesa come Provvidenza o programmazione divina della nostra sorte. Tutti siamo legati al destino e la catena può essere «d'oro e larga», oppure «stretta e nera». In questo senso «ogni vita è schiavitù», anche quella di chi occupa le cariche più alte e, incatenato, cerca di incatenare gli altri.
Seneca stesso fu vittima di questa catena. L'essenziale è cercare e cogliere il lato buono di ogni cosa, perché nulla è così terribile che un animo equilibrato non possa trovarvi qualche motivo di consolazione. L'essenziale è lottare da buon gladiatore e non temere nulla, nemmeno la morte. Anzi la morte stessa può essere fonte di conoscenza: questo il momento più alto dell'ottimismo senecano. La ricerca della conoscenza è la base della nostra felicità: anzitutto conoscenza di se stessi e conoscenza di ciò che ci circonda in un unico atto d'amore. Il saggio non teme la morte perché sì sente parte integrante della natura, del tutto cosmico. Un esempio mirabile ci è offerto nel capitolo XIV da Giulio Cano - un personaggio a noi non altrimenti noto - che tratto all'estremo supplizio per ordine di Caligola dichiara di volere prestare la massima attenzione per accertarsi se nel momento velocissimo del trapasso la sua anima avrà coscienza di uscire dal corpo. Però, «quanto cattiva è la fine dei buoni». Ebbene, «non piangerò nessuno che sia lieto, nessuno che pianga: l'uno ha asciugato le mie lacrime, l'altro, con le lacrime sue, fece in modo di non esserne degno di alcuna».
Anche Paolo di Tarso nella prima lettera ai Tessalonicesi (5, 16) così esorta i cristiani: «Siate sempre lieti!». Il dialogo si conclude con l'invito a ricreare lo spirito concedendosi ogni tanto qualche giorno di vacanza senza vergognarsi di spingersi anche fino all'ebbrezza, naturalmente entro certi limiti, come faceva Catone. È auspicabile anche qualche istante di amabile follia, quello stato di «divina istigazione» proprio degli eroi, dei poeti, che ci fa balzare più in alto, dove con le nostre forze non avremmo il coraggio di salire. Lo scritto sulla tranquillità dell'animo è bensì un insieme di saggi insegnamenti espressi all'insegna della filosofia stoica, ma il tono del maestro è garbato e umano e quindi tanto più convincente.
Ben si può dire che questo dialogo è un vademecum di saggezza e uno stimolo alla riflessione, un manuale pratico di autoanalisi intelleggibile a tutti, un volumetto da portare con sé in viaggio, da tenere a portata di mano sullo scaffale dei libri o sul comodino accanto al letto. Ed è una voce vera, universale - «il mondo è la nostra patria» -, che si affianca ad altre voci, anche a quelle delle verità rivelate, per le quali il riscatto non parte direttamente dall' uomo, ma da Dio, e con esse convive in perfetta armonia.