30/06/14

Struttura e contenuto dei dialoghi | Seneca

............ quando ne avrò la forza, vivrò come si deve..[ qui ]

Struttura e contenuto dei dialoghi
La lettura dello scritto sulla tranquillità dell'animo o semplicemente sulla tranquillità senza altra aggiunta ,come scriveva Seneca, è una stimolante avventura di introspezione analitica che coinvolge le strutture stesse della psiche umana. Queste pagine hanno dunque un valore universale e si collocano fuori del tempo, come del resto, la maggior parte delle opere di Seneca.

Il dialogo fu scritto con ogni probabilità nei mesi che seguirono all'uccisione di Agrippina (marzo del 59), quando il filosofo si era ormai reso conto dell'incoercibile malvagità di Nerone e dell'inutilità di perseverare nello sforzo di migliorare i rapporti politici all'interno dell'Impero, partecipando alla vita attiva dello Stato. Seneca si preparava dunque al distacco, sia pure graduale, come si è detto, per non generare sconvolgimenti, dalla sua diretta partecipazione al governo imperiale. Lo scritto consta di diciassette capitoli ed è indirizzato ad Anneo Sereno, il giovane comandante delle coorti delle guardie imperiali.

Sereno era, se così si può dire, il discepolo e il depositario di una parte cospicua del pensiero senecano. A lui il filosofo dedicò in successione di tempo - difficile valutare gli intervalli - tre dialoghi, il De constantia sapientis "La costanza del saggio", il De tranquillitate animi "La tranquillità dell' animo" e il De otio "Il tempo libero", che corrispondono a tre fasi dell'evoluzione filosofica di Sereno, rispettivamente l'epicureismo, lo stoicismo del neofita, lo stoicismo di chi lo ha scelto come stile di vita e lo professa con convinzione e intransigenza. Sereno fu rapito dalla morte durante un banchetto, vittima di funghi velenosi insieme con i suoi tribuni e centurioni. Seneca ne fu profondamente colpito e in una lettera a Lucilio (LXllI, 16) esortò il suo interlocutore a pensare che «noi presto arriveremo là dove ci affliggiamo che egli sia giunto; e forse, se è vero quanto affermano i saggi e se c'è un luogo per accoglierei, ebbene colui che crediamo estinto ci ha preceduto». Chi può negare che queste parole non dimostrano, insieme con altre, la fede di Seneca nell'immortalità dell'anima? Il dialogo, o meglio, il soliloquio che Seneca indirizza certamente a Sereno, ma anche a se stesso e a chiunque abbia orecchie per intenderlo (Sereno si rivolge in prima persona al filosofo soltanto nel primo capitolo) ha inizio con l'autoanalisi di Sereno del malessere che lo affligge.

Mai Seneca ha dato avvio a un dialogo - che nella concezione classica è espressione letteraria di un ragionamento filosofico - rivelando in misura così notevole sensibilità e tatto. Dunque Sereno parla per primo. Senza dubbio si tratta di un artificio retorico, ma è un artificio indispensabile e perfettamente in linea con la prassi psicoterapeutica: l'analista deve penetrare nella coscienza del paziente dopo averlo ascoltato con estrema attenzione e valutando in ogni minimo particolare ciò che angustia il suo animo: solo così potrà suggerire la terapia adeguata senza il pericolo di irrompere bruscamente nella sua coscienza e di annullare o per lo meno ridurre gli effetti della cura. Non si deve credere che il dialogo sulla tranquillità sia la ripetizione pedissequa di pregresse conversazioni, perché qui Seneca intende, se mai, sistemare organicamente i propri suggerimenti e insegnamenti in modo da fornire al giovane interlocutore, che gli chiede esplicitamente aiuto, un mezzo duraturo e sempre a disposizione per eliminare le angosce.

Il tormento maggiore di Sereno è l'instabilità dei propositi, l'oscillare continuo del suo animo tra pulsioni di segno opposto: amore per la parsimonia e stile lussuoso di vita; desiderio di emergere nell'attività politica e nostalgia della vita privata; desiderio di scrivere cose semplici e amore per la magniloquenza. Orbene, questa instabilità, questa forma di nevrosi derivante dall'incapacità o dalla difficoltà di una scelta precisa, questo perenne dubitare, è una condizione tipica dell'animo umano, alla quale nessuno sfugge almeno in qualche momento della propria vita.

Come non ricordare l'inizio del canto quarto del Paradiso: «Intra duo cibi, distanti e moventi! D'un modo, prima si morria di fame;' Che liber uomo l'un recasse ai denti»? Anche e forse soprattutto per questa tematica lo scritto di Seneca acquista una valenza universale. Tutti noi, a voler essere sinceri, potremmo dire qualche volta con Sereno «né sono malato né in buona salute» e invocare l'aiuto di qualcuno perché «chi ha mai il coraggio di dire a se stesso la verità»? Il motivo dell'incertezza della condizione umana percorre l'intero dialogo e gli conferisce una nota di amarezza, che rispecchia però soltanto lo stato d'animo dell' autore pur nell' innegabile ottimismo della parte conclusiva.
Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Italia.