15/12/13

La rivista americana “Forbes” lo inserisce sempre nell’elenco dei criminali «più ricchi del mondo»

Se da cinque anni la rivista americana “Forbes” lo inserisce sempre nell’elenco dei criminali «più ricchi del mondo», una ragione certo ci sarà. Il boss amante del lusso, Matteo Messina Denaro, di lui sappiamo che lo chiamano “Diabolik” o “Testa dell’Acqua” e i suoi lo venerano come una divinità.
Sulla vecchia carta d’identità risulta coltivatore diretto. Sconosciuto è il suo reddito ufficiale, come il suo volto. E' ricercato dal 2 giugno del 1993, e custodisce l’archivio segreto di Totò Riina. Conosce ogni dettaglio sulle uccisioni di Falcone e Borsellino ed è a capo di un impero di qualche miliardo di euro.
Matteo Messina Denaro

Dappertutto è un fantasma. Oggi ha più prestanome Matteo Messina Denaro nella provincia di Trapani di quanti ne abbiamo tutti gli altri boss di Cosa Nostra in tutta la Sicilia, amministratore delegato (di fatto) di aziende turistiche e agricole, vinicole e di ristorazione, di smaltimento rifiuti, calcestruzzo, movimento terra, grande distribuzione, di impianti eolici e fotovoltaici, di ospizi per anziani e case di cura. È proprietario di palazzi e negozi, è il ras degli appalti pubblici, porti, strade, edifici governativi. Sono affari di famiglia. Con la sorella Patrizia. E con il nipote Francesco Guttadauro, il figlio del messaggero “numero 121” in quel ministero delle Poste che aveva messo su Bernardo Provenzano con i suoi pizzini che viaggiavano da una parte all’altra dell’isola. Il nipote prediletto manteneva i contatti con la mafia di Corleone, una sorta di addetto-stampa dello zio. Al quinto posto per pericolosità appena dietro a Osama Bin Laden prima della sua morte e a gangster russi e a narcos messicani (è sempre il magazine Usa a stilare la graduatoria), l’ultimo dei boss siciliani, figlio del campiere (guardia privata di una tenuta agricola) dei latifondisti D’Alì di Trapani, da giovane scavezzacollo che andava in giro su una Porsche ed esibiva Rolex, con la maturità — ha compiuto 51 anni il 16 aprile — e la responsabilità di tenere in piedi una Cosa Nostra in crisi di vocazioni si è trasformato in un grande manager al servizio del popolo mafioso e di se stesso. Un uomo di successo. Anche in tempo di crisi. Come è diventato un Paperon de’ Paperoni l’imprendibile Matteo Messina Denaro? Grazie agli amici che lo adorano e che fanno tutto per lui. Come uno degli arrestati di ieri in un piccolo paese fra Marsala e Trapani, dove Michele Mazzara è conosciuto come “il Berlusconi di Paceco” per quanti “piccioli” faceva girare insieme alle sue ruspe che sono entrate perfino nel carcere dell’Ucciardone. O come Aldo Licata, di Campobello, che concedeva pacchetti di voti — “Onda Nuova” il suo movimento politico — al migliore offerente, centrodestra e centrosinistra, prima all’Mpa dell’ex governatore Raffaele Lombardo, poi a Gianfranco Micciché di Grande Sud, poi ancora ai Democratici Riformisti Siciliani dell’ex ministro Totò Cardinale. Questo Licata è nipote di Carmelo Patti, mister Valtur che ha ancora i suoi alberghi sotto indagine, i giudici hanno appena chiesto il sequestro del suo patrimonio che è calcolato sui 5 miliardi di euro. Il sospetto è che Matteo Messina Denaro abbia più di qualche interesse anche da quelle parti.Come negli appalti che nel 2004 si erano aggiudicati i suoi compari per l’America’s Cup alle isole Egadi. Come è infilato nel business di Vito Nicastri, il re dell’eolico in Sicilia, «il signore del vento» (definizione del “Financial Times”) al quale qualche mese fa hanno sequestrato un miliardo e 300 milioni di euro, 43 società, 98 immobili, 7 auto e 66 fra conti correnti, titoli e fondi d’investimento. A quanto pare, se così stanno le cose, “Testa dell’Acqua” è veramente ricco come sostiene “Forbes”. E anche veramente protetto. Gli danno la caccia ma non riescono mai a prenderlo. Ci vanno vicino, sentono il suo odore, ma lui non si fa acchiappare. Dal giugno del 2010 i servizi segreti hanno messo una taglia su di lui: un milione e mezzo per chi lo fa catturare. Fino ad ora, nessuno ha parlato. Nemmeno quel Giuseppe Grigoli, Pino, che è all’origine della sua fortuna, uno che nel ‘74 aveva una bottega di generi alimentari e dichiarava al fisco 3 milioni ma che qualche anno fa — quando l’hanno preso — aveva sette supermercati nella Sicilia occidentale e beni per 700 milioni di euro. Tutta roba di Matteo. Adesso, in famiglia, sembrano preoccupati che Pino possa «cantare». La residenza ufficiale di Pino Grigoli è Mazara del Vallo, via lungomare San Vito numero 167. A meno di dieci passi dalla sua villa c’è una palazzina a due piani con un citofono e una scritta: Sea-MeWee3. Dentro la palazzina arrivano i dati di un cavo lungo 39 mila chilometri che collega Asia, Medio Oriente ed Europa. È uno dei nodi dei terminali della Sparkle Telecom dello scandalo Datagate, quello delle rivelazioni dell’ex tecnico dell’Nsa e della Cia Edward Snowden. Cose che succedono in Sicilia. Gli 007 che spiano tutto il mondo sono vicini di casa di Pino, l’uomo legato a uno dei più grandi latitanti del mondo.
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