Nell'VIII secolo in Giappone ai banchetti si dispiegavano spettacoli di quello che poi si sarebbe chiamato judo, in seguito l'arte fu rmpartira in societa segrete. L'abilità doveva condurre a schivare i colpi d'offesa sfruttando l'intervallo, che sempre sussiste anche se brevissimo, e dopo ogni schivata si doveva vibrare istantaneamente, di rimando, una percossa. Il judo parve estinguersi all'inizio dell'epoca Meiji nel 1868, ma già nel 1882 in un tempio di Tokio riprese e in poco tempo si diffuse fino a entrare nel programma scolastico. Come il karate, fu vietato dagli alleati, ma riprese anch'esso subito dopo la loro partenza e oggi i praticanti in Giappone raggiungono il milione. Su pochi princìpi si basa la tecnica: ci si butta, si ghermisce, si percuotono i punti nevralgici; vincerà chi incessantemente avrà spostato il proprio peso fra i due piedi.
In Giappone le arti marziali erano sempre state unite in un fascio: scherma (kendo), tiro al bersaglio in cui ci si trasfonde nel bersaglio (kyudo), tiro del pugnale, uso della corda, arte della spia che si eclissa e scatta all'improvviso (ninjutsu), sputo di aghetti (fukumibari): tutte forme adottate accanto aljudo dai samurai. Il fine di queste forme è unico, di origine buddhista e quindi indiana: ottenere un « cuore di sasso» che sia costantemente in quieta attesa del colpo. I maestri sentono l'arrivo del nemico anche se immersi nel sonno. Il lottatore non si preoccupa di vivere, ma di illuminare vita e morte a cospetto del pericolo. La scuola Muto riassumeva il judo nella parola che echeggia salmodiata nelle aule dei templi zen: nulla (mu).
Eppure la presentazione non sarebbe integra se non si aggiungesse una forma purissima, nota già nel secolo XIV, ma emersa come nuova nel nostro con Ueshiba Morihei (morto nel 1969), seguace della scuola shintò Omoto. L'aikido che egli insegnava educa la fantasia come usa in India, si figura la mano che penetra a distanze irraggiungibili, si immagina l'estensione delle braccia fino ai cieli. L'aikido non coltiva colpi, ma soltanto parate, sicché uno scontro è inimmaginabile: il lottatore sta fermo spostando di continuo l'equilibno fra I due piedi, ravvisando nell'avversario un essere turbato e compassionevole che occorre attrarre nell'orbita imperniata sulla propria spina dorsale, pacificandolo.
Il praticante di aikido dovrà seguire puntualmente il colpo che lo minaccia, ruotando sulla spina, irid irizzanriolo dolcemente in avanti, provocando la caduta di chi l'ha sferrato. Questo studio attento dell'impeto avversario in Cina fu il metodo della scuola intitolata alla Mantide Religiosa. Credo che l'antichissima lotta indiana, che si propone di sbloccare, come lo yoga, i legamenti del corpo e dell'anima, facendo inspirare a scatti improvvisi per espirare sofficemente, lenti lenti, si possa ricostruire raccogliendone le tracce che monaci buddhisti trasferirono in Cina, in Corea e in Giappone, oltre che indagando in India, come ancora non s'è fatto, tra i sadhu, i monaci vaganti, dediti alla lotta.
Nell'India che permeò l'Asia intera, una mezza speranza di questo genere è lecita. Il patrimonio intellettuale indù s'è, negli ultimi tre secoli, giusto sfiorato; danze, dottrine tantriche sono appena appena riemerse. Per ottenebrare ogni cosa hanno svolto la loro parte il regime del silenzio che ha sempre imperato su ogni insegnamento nonché le guerre di sterminio. La storia dell'India infine per tanta parte rimane congettura e le sue date sono supposizioni. Eppure, ramingando per foreste, indagando angoli dimenticati di templi, percorrendo torridi, umidi, tenebrosi vicolacci, raccogliendo confidenze, lì ancora può capitare l'incontro con un qualche barbaglio del passato remoto, che ci tramuta.
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