06/09/14

Tempo e spazio sono concetti che imprimiamo su quanto ci appare | LE TRE VIE

..... sole e luna esistono perché noi ci siamo; approfondiamo questa osservazione, fino a gioirne.[QUI]

Consideriamo che cosa siamo quando ci contempliamo: siamo simili «al daino che si riposa all'ombra d'un albero », in un'ombra né chiara né scura, né nera né brillante, simile al turchino di certe nuvole. Qui Nisargadatta si rifà a una metafora diffusa nella poesia: la mente devota è come un daino sempre insidiato dai cacciatori: dalle iatture della vita; sua colpa è la sua stessa carne: le costruzioni mentali con cui suscita l'illusione della realtà. Dal daino-mente ogni cosa fluisce, esso non reclama nulla, non è sconvolto da ciò che emana: è « lo stato più naturale, lo stato più alto ». Si può dire che in questa condizione estatica c'è un'unica conoscenza: non so che cosa e chi sono, ma so di essere.

Questa limitazione al puro essere conferisce una beatitudine, una pienezza eccelsa. Ci si accorge che di qui deriva tutto l'universo che ci circonda, tutto lo stuolo dei fenomeni rispetto ai quali quell'apice è principio e causa. Questa è la prima certezza. Noi però siamo abituati a porci dal punto di vista dei fenomeni molteplici e perciò siamo dilaniati e confusi, crediamo di essere nati e di dover morire, senza renderci conto che questi eventi sono il risultato, la conseguenza di due idee, che abbiamo applicato alla realtà per arbitrio a partire dalla prima infanzia: tempo e spazio. Il tempo non è un'esperienza, non lo è nemmeno lo spazio: sono concetti che imprimiamo su quanto ci appare.

Allorché io sono senza nessuna qualifica, vivo in un eterno istante. Si potrebbe osservare che in Kant è riscontrabile la stessa concezione di tempo e spazio, ma egli rimane inerte: non procede risolutamente a trarre deduzioni. Nisargadatta, viceversa, non si accontenta di riportare incessantemente a io sono, forza a procedere oltre, alla radice di io sono, al non-essere, alla non identità, poiché, prima di essere, si è nulla o almeno si è senza sapere di essere. Il passo al di là di io sono è terribilmente arduo, occorre sostare finché alla fine sentiremo di sprofondare al di sotto di io sono. L'istinto naturale è di uscire verso il mondo, occorre viceversa retrocedere, riflettere sul fatto che pensiamo e abbiamo coscienza soltanto grazie al corpo e il corpo altro non è che cibo trasformato: dobbiamo tornare allo « stato in cui il bambino non conosceva se stesso », era un assoluto senza coscienza di se stesso.

Occorre tornare al momento in cui da bambini si accese in noi il primo indizio di consapevolezza, spogliandoci di ogni concetto, ritraendoci in ciò da cui ogni concetto si proietta. Forse, così ritratti, si comprenderà di essere come un attore che interpreta un ruolo sul palcoscenico che è l'universo. Si torni indietro al punto in cui si entrò nella realtà, si acquisti il volto che si ebbe prima di nascere, dice la tradizione indù. Si raccolgono bacche, semi, foglie, erbe, carni, e si mangiano. Le tante vivande diventano parte di noi, dominandoci. Uno storico indù di oggi, K.N. Chaudhuri, ha esplorato l'importanza del cibo in L'Asia prima dell'Europa, del 1991, mostrando come l'alimentazione sia generata dall'identità religiosa e morale, sia pure inconscia. Il filosofo indù da sempre ripete che siamo cibo. Non fa che ravvivare una verità primordiale, per cui i Maya si sentono granturco, i Giapponesi piante di riso.

Nell'India che permane antica non è soltanto in gioco la bocca; l'intera epidermide si apre ai profumi e agli odori, si fa avvolgere dai venti, assorbe oli, mentre il massaggio quotidiano la tende, la rolla, l'accarezza. Il corpo, dai piedi alla sommità del cranio, si imbeve di alimenti, pelle e mucosa inghiottono la natura circostante, fino a diventare tutt'uno con essa.
Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Italia.