CINQUE ANNI FA LA SCOMPARSA DI BRUNO FORTUNATO, IL POLIZIOTTO CHE ARRESTÒ NADIA DESDEMONA LIOCE
Lo Stato dimentica troppo frettolosamente i nostri eroi. Spesso siamo anche noi superficiali. Riusciamo a cassare dalla nostra mente, in un attimo, i nomi e le storie di quelle persone che hanno dato la vita per un Paese migliore.
Mena e Alma, invece, non si danno pace. Loro due hanno perso i mariti e continuano a piangerli, a rammentarli ogni giorno. Bruno Fortunato ed Emanuele Petri erano due poliziotti della Polfer e alle 8,25 del 2 marzo 2003, insieme al loro collega Giovanni Di Fronzo erano saliti sul treno a Terontola, in provincia di Arezzo, per un servizio di routine. Bruno e Giovanni si erano fermati per controllare un viaggiatore, mentre Emanuele Petri era entrato nello scompartimento dove c’erano Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce.
«Dallo scompartimento vidi uscire Petri e telefonare – raccontava Bruno Fortunato – poi ho visto un uomo, Galesi, che gli puntava una pistola alla gola. Io e Di Fronzo ci siamo avvicinati di qualche passo e io gli ho fatto “butta quella pistola”. Lui invece ci ha gridato qualcosa come “datemi le armi, consegnateli a lei” (Nadia Desdemona Lioce). Io avevo sfilato la mia pistola dalla fondina e la nascondevo. Lei puntava alla pistola che Di Fronzo aveva gettato sotto i sedili. Poi ho sentito un pizzico all’addome». Era il colpo sparato da Galesi che gli perforò fegato e polmone. «Poi – continuava Fortunato – ho sentito qualche altro colpo. Emanuele era a terra, io ho alzato la pistola e ho sparato. Galesi è caduto. Sento Di Fronzo che mi fa “Bruno, dammi una mano”. Mi sono girato ma non me la sono sentita di fare un’altra cosa».
«Ma cosa? – gli chiede il pm Giuseppe Nicolosi – sparare contro la Lioce?».
«Sì – risponde Fortunato – sparare. Ho rimesso la pistola nella fondina, ho visto l’imputata distesa su una poltrona che premeva il grilletto alcune volte, senza che partisse il colpo. Cercava di sparare verso di me. Gli ho strappato la pistola e l’ho ammanettata».
Il 2 marzo 2003 Emanuele Petri fu ucciso dalle Nuove Brigate Rosse. Cinque anni fa, Bruno Fortunato non ha retto al dolore e ha deciso di raggiungere, lassù, il suo compagno.
Negli anni ho ascoltato da questi eroi un solo e identico grido disperato: “Siamo stati abbandonati dallo Stato“. Questo era il cruccio anche di Bruno Fortunato, poliziotto, vittima del terrorismo. Anche lui, ogni volta che lo incontravo, mi diceva sempre di sentirsi solo. Il 2 marzo scorso, abbiamo commemorato il compagno di Bruno, Emanuele Petri, assassinato dai brigatisti rossi sul treno partito dalla stazione di Terontola, in provincia di Arezzo, nel 2003.
Quella mattina Giancarlo Benedetti, dirigente della Digos di Firenze, fece partire immediatamente tre investigatori. Fu proprio uno di questi, Piero, a riconoscere, grazie a una piccola macchiolina sul volto, Nadia Desdemona Lioce. Erano otto anni, che l’antiterrorismo del capoluogo toscano, seguiva le tracce della terrorista. Grazie all’acume dei poliziotti della Polfer, Bruno Fortunato ed Emanuele Petri, le Nuove Brigate Rosse furono sconfitte. Emanuele era un grande uomo e un ottimo poliziotto. Anche Bruno lo era. Ogni volta che lo incontravo mi diceva di non aver superato lo shock di veder morire il collega e amico Emanuele.
Purtroppo con Bruno non potrò più affrontare questo argomento, perché il 9 aprile 2010, ha deciso di farla finita con un colpo di pistola. Oggi sono quattro anni che Bruno non c’è più: era il personaggio meno conosciuto della sparatoria sul treno, ma ne era il cardine, perché è stato grazie a lui che fu bloccata Nadia Desdemona Lioce. Voglio ricordarlo così, perché gli sia riconosciuto e tributato quello che merita.
Purtroppo con Bruno non potrò più affrontare questo argomento, perché il 9 aprile 2010, ha deciso di farla finita con un colpo di pistola. Oggi sono quattro anni che Bruno non c’è più: era il personaggio meno conosciuto della sparatoria sul treno, ma ne era il cardine, perché è stato grazie a lui che fu bloccata Nadia Desdemona Lioce. Voglio ricordarlo così, perché gli sia riconosciuto e tributato quello che merita.
ROBERTO MUSSINO