29/03/14

TREBBIANO: «Nemo propheta in patria est»

Il Trebbiano: la sua storia antica risale al primo secolo dopo Cristo

Il trebbiano romagnolo diffuso anche in territorio internazionale
Noto col suo nome
"Trebulanus" fin dall'epoca classica, menzionato da Plinio il Vecchio
Le sue uve sono adoperate addirittura per i prestigiosi e sopraffini cognac francesi

Il Trebbiano è un vino a maggior diffusione a livello nazionale e internazionale, ma nella sua terra è forse il meno amato. «Nemo propheta in patria est», ammonisce d'altronde un antico adagio. È indubbio però che se una simile situazione fosse reale, se davvero cioé i romagnoli snobbassero il loro Trebbiano, meriterebbero come minimo di esser tacciati quali irriconoscenti. E già perché il Trebbiano, al di là di apprezzamenti soggettivi (che comunque merita in termini assai positivi), è di estrema resa, garantendo una produzione elevata e un'offerta che più di altre risulta commercialmente vincente. Come vino da tutto pasto, col suo gusto discreto che mai stona in tavola abbinandosi con le più disparate pietanze, sa farsi spesso preferire infatti anche a vini ben più nobili e prelibati. Il Trebbiano dunque è sì umile, ma solo nel senso migliore della parola: non si dà arie da .«grandeur» (nonostante le sue uve siano adoperate addirittura per i prestigiosi e sopraffini cognac francesi; tali in pratica sono quelle del vitigno «Saìnt-Emilion»), non pretende che lo si aspetti maturare (lo è fin da subito e va bevuto giovane) e non chiede di veders
i abbinato su misura il cibo: lo affianca esso stesso senza problemi e senza mai sfigurare. E poi è sempre più che gradevole, col suo modo d'essere ben asciutto ed equilibrato.

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Fra i suoi estimatori più illustri, va citato Alessandro Tassoni, il poeta modenese de «La secchia rapita», vissuto a cavallo fra '500 e '600. Il Trebbiano ha saputo aspettare con pazienza il meritato riconoscimento delle sue qualità: ha ottenuto la Doc nel 1973, buon ultimo della triade dei vini romagnoli nonostante sia di questa il più antico. Già era noto col suo nome fin dall'epoca classica, se è vero che Plinio il Vecchio (grande naturalista e scrittore romano del I secolo dopo Cristo) nella sua «Naturalis Hìstoria » già parla del «Trebulanus» coltivato in Campania, vino prediletto dai legionari nelle loro spedizioni (e in tale veste è raffigurato in un bassorilievo romano di Treviri). Non era certo quello di oggi, secco e deciso, quanto piuttosto un vino ben più aromatizzato, ma il ceppo è sempre lo stesso. In Romagna furono però gli etruschi ad introdurlo, come suggerisce un altro dotto latino, Terenzio Varrone, quando ricorda l'arrivo di questo popolo nella terra romagnola, dove bonificò terre, fondò città e introdusse nuove piante fra cui l'Albana, il Trebbiano e la Canina. Da «Trebulanus» (parola derivata forse dalla città osca di Trebula, l'attuale Treglia in provincia di Caserta) a «Trebìanum» scorre un passo di oltre un millennio. Dopo le antiche citazioni in lingua classica, una delle prime in latino medievale risale al 1364, data di pubblicazione dell'elenco dei vini ammessi alle cantine di Palazzo della Signoria. A quel tempo lo storico edificio fiorentino era la sede dei priori, i signori della città. L'inserimento in un simile elenco significa che il Trebbiano era degno di far capolino nei pranzi di maggior prestigio. Il bolognese De' Crescenzi aveva però già scritto nel 1305 di un'uva detta trìbiana; e in quel secolo la parola, più o meno storpiata a seconda dei gerghi locali, era nota dalla Sicilia fino al Friuli, chiaro segnale che lo era anche il vino da esso prodotto. Fin da allora in Romagna questo sarà il «tarbian», con la lettera A finale dal suono cupo e nasale. Da circa 700 anni il Trebbiano è quindi conosciuto, con la sua attuale dizione, in terra romagnola, quella terra che lo ha finalmente elevato al rango di vino importante, seppur sempre nell'ambito di una discrezione che gli è propria sia per indole delle sue uve, che per qualità del nettare che ne scaturisce. Il vitigno romagnolo, per le caratteristiche sfumature deì, suoi acini e - come disse Aldo Spallicci - «dal biondo acceso de' suoi chicchi» è detto «della fiamma». A questo, definito anche «Trebbiano romagnolo», si contrappone quello «Montanaro», dal caratteristico colore ambrato. Va detto che quello della fiamma, a differenza delle altre uve da vino romagnole che poco amano le pianure verso il mare, trova terra feconda anche e soprattutto ad est della via Emilia, colorando con filari di viti i campi della Bassa Romagna. Il vino che se ne ricava è secco ed asciutto, leggero e sapido, brioso nella sua versione spumante, sia secca che amabile; e sempre grato e fragrante, come lo apostrofò l'abate Piolanti nel suo famoso ditirambo «Bacco in Romagna» dove lo considera «meglio del nettare, per verità».
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