Tradotta in volgare, significa che quasi il 90% della nostra gioia è fuori controllo, ma operando sul minuscolo 10% dei valori possiamo in realtà determinare l’indirizzo delle nostre esistenze, e il loro successo. Il tema della ricerca della felicità è caro agli Stati Uniti dall’epoca dei padri fondatori, che lo inserirono nella Dichiarazione di Indipendenza come uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Ieri è finito nella pagina degli editoriali del New York Times, con un articolo di Arthur Brooks, presidente della think tank conservatrice di Washington American Enterprise Institute. Brooks è un sincero liberista, e il suo obiettivo stava nel dimostrare che soprattutto le scelte compiute nel lavoro, oltre a quelle nella famiglia, nella fede e nella vita sociale, determinano la nostra felicità. Quindi bisogna impegnarsi a cambiare le attuali condizioni economiche e politiche, perché non offrono ai cittadini la possibilità di realizzare obiettivi professionali davvero gratificanti. Premesso questo, il modo in cui Brooks è arrivato alle sue conclusioni ci interessa tutti da vicino. Brooks cita studi compiuti da psicologici e sociologi americani, secondo cui il 48% della nostra felicità dipende dai geni. La University of Minnesota è arrivata a determinare questa percentuale, seguendo coppie di gemelli separati alla nascita. Stesso materiale genetico, diversa educazione, stesso impatto dei geni sulla gioia dei soggetti. Altre ricerche sono arrivate alla conclusione che il 40% della nostra felicità dipende dagli eventi quotidiani, ma il loro effetto non è di lungo termine. Quando otteniamo un aumento di stipendio, ad esempio, siamo certamente contenti, ma nel giro di qualche mese l’influsso della buona notizia è già svanito. Gravi tragedie a parte, o avvenimenti tipo nascite e matrimoni, pochi fatti della nostra esistenza giornaliera hanno davvero un effetto duraturo sul nostro umore. In gioco, quindi, resta quel 12% di felicità che secondo gli studiosi americani dipende dai valori che scegliamo per guidare la nostra vita: fede, famiglia, comunità e lavoro. I primi tre punti sono abbastanza ovvi: le certezze legate alla presenza di Dio, gli investimenti sulla famiglia e quelli sulla propria comunità, hanno un’influenza molto ravvicinata sulla qualità dell’esistenza. Anche il lavoro è un parte importante, ma molti sono portati a considerarlo una necessità, più che un piacere. Brooks ritiene che la società Usa sia cambiata su questo punto, perché un tempo gli americani vivevano per le soddisfazioni del lavoro, mentre adesso fanno un lavoro qualunque per vivere. Riscoprire il senso di missione della propria professione sarebbe la chiave per ritrovare una felicità duratura. Naturalmente non tutti sono d’accordo, ma se ci fidiamo della formula americana, ripuntare almeno su tutti gli altri valori è l’unica strada rimasta per avere una vita piena di gioie.
16/12/13
La formula della felicità provata dai geni
Pubblicato da
Galadriel
Uno studio americano condotto da scienziati, hanno identificato la formula della felicità. Due quinti ai geni, due quinti agli eventi della vita e un quinto ai valori che scegliamo per condurla. Difficile generalizzare sulla felicità, quello che fa felice uno può far tristezza ad un altro. La felicità è non avere nulla e non desiderare nulla, dice una filosofia orientale, ma si sa le filosofie sono un insieme di parole scritte solo per chi comprende. Allora che cosa ci fa felici? Sicuramente l'amore, viverlo, darlo, riceverlo, consumarlo! Vedere tuo figlio felice, amare un pelosetto che dipende dal tuo cuore, riunire la famiglia a tavola, alleviare una sofferenza al prossimo, consolare un'amico e riuscirci, amare in un tripudio di sensi e passione il o la partner, tutte questo procura felicità: AMORE. Ma secondo gli scienziati sociali americani la felicità è la formula sopracitata.
Tradotta in volgare, significa che quasi il 90% della nostra gioia è fuori controllo, ma operando sul minuscolo 10% dei valori possiamo in realtà determinare l’indirizzo delle nostre esistenze, e il loro successo. Il tema della ricerca della felicità è caro agli Stati Uniti dall’epoca dei padri fondatori, che lo inserirono nella Dichiarazione di Indipendenza come uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Ieri è finito nella pagina degli editoriali del New York Times, con un articolo di Arthur Brooks, presidente della think tank conservatrice di Washington American Enterprise Institute. Brooks è un sincero liberista, e il suo obiettivo stava nel dimostrare che soprattutto le scelte compiute nel lavoro, oltre a quelle nella famiglia, nella fede e nella vita sociale, determinano la nostra felicità. Quindi bisogna impegnarsi a cambiare le attuali condizioni economiche e politiche, perché non offrono ai cittadini la possibilità di realizzare obiettivi professionali davvero gratificanti. Premesso questo, il modo in cui Brooks è arrivato alle sue conclusioni ci interessa tutti da vicino. Brooks cita studi compiuti da psicologici e sociologi americani, secondo cui il 48% della nostra felicità dipende dai geni. La University of Minnesota è arrivata a determinare questa percentuale, seguendo coppie di gemelli separati alla nascita. Stesso materiale genetico, diversa educazione, stesso impatto dei geni sulla gioia dei soggetti. Altre ricerche sono arrivate alla conclusione che il 40% della nostra felicità dipende dagli eventi quotidiani, ma il loro effetto non è di lungo termine. Quando otteniamo un aumento di stipendio, ad esempio, siamo certamente contenti, ma nel giro di qualche mese l’influsso della buona notizia è già svanito. Gravi tragedie a parte, o avvenimenti tipo nascite e matrimoni, pochi fatti della nostra esistenza giornaliera hanno davvero un effetto duraturo sul nostro umore. In gioco, quindi, resta quel 12% di felicità che secondo gli studiosi americani dipende dai valori che scegliamo per guidare la nostra vita: fede, famiglia, comunità e lavoro. I primi tre punti sono abbastanza ovvi: le certezze legate alla presenza di Dio, gli investimenti sulla famiglia e quelli sulla propria comunità, hanno un’influenza molto ravvicinata sulla qualità dell’esistenza. Anche il lavoro è un parte importante, ma molti sono portati a considerarlo una necessità, più che un piacere. Brooks ritiene che la società Usa sia cambiata su questo punto, perché un tempo gli americani vivevano per le soddisfazioni del lavoro, mentre adesso fanno un lavoro qualunque per vivere. Riscoprire il senso di missione della propria professione sarebbe la chiave per ritrovare una felicità duratura. Naturalmente non tutti sono d’accordo, ma se ci fidiamo della formula americana, ripuntare almeno su tutti gli altri valori è l’unica strada rimasta per avere una vita piena di gioie.
Tradotta in volgare, significa che quasi il 90% della nostra gioia è fuori controllo, ma operando sul minuscolo 10% dei valori possiamo in realtà determinare l’indirizzo delle nostre esistenze, e il loro successo. Il tema della ricerca della felicità è caro agli Stati Uniti dall’epoca dei padri fondatori, che lo inserirono nella Dichiarazione di Indipendenza come uno dei diritti fondamentali dei cittadini. Ieri è finito nella pagina degli editoriali del New York Times, con un articolo di Arthur Brooks, presidente della think tank conservatrice di Washington American Enterprise Institute. Brooks è un sincero liberista, e il suo obiettivo stava nel dimostrare che soprattutto le scelte compiute nel lavoro, oltre a quelle nella famiglia, nella fede e nella vita sociale, determinano la nostra felicità. Quindi bisogna impegnarsi a cambiare le attuali condizioni economiche e politiche, perché non offrono ai cittadini la possibilità di realizzare obiettivi professionali davvero gratificanti. Premesso questo, il modo in cui Brooks è arrivato alle sue conclusioni ci interessa tutti da vicino. Brooks cita studi compiuti da psicologici e sociologi americani, secondo cui il 48% della nostra felicità dipende dai geni. La University of Minnesota è arrivata a determinare questa percentuale, seguendo coppie di gemelli separati alla nascita. Stesso materiale genetico, diversa educazione, stesso impatto dei geni sulla gioia dei soggetti. Altre ricerche sono arrivate alla conclusione che il 40% della nostra felicità dipende dagli eventi quotidiani, ma il loro effetto non è di lungo termine. Quando otteniamo un aumento di stipendio, ad esempio, siamo certamente contenti, ma nel giro di qualche mese l’influsso della buona notizia è già svanito. Gravi tragedie a parte, o avvenimenti tipo nascite e matrimoni, pochi fatti della nostra esistenza giornaliera hanno davvero un effetto duraturo sul nostro umore. In gioco, quindi, resta quel 12% di felicità che secondo gli studiosi americani dipende dai valori che scegliamo per guidare la nostra vita: fede, famiglia, comunità e lavoro. I primi tre punti sono abbastanza ovvi: le certezze legate alla presenza di Dio, gli investimenti sulla famiglia e quelli sulla propria comunità, hanno un’influenza molto ravvicinata sulla qualità dell’esistenza. Anche il lavoro è un parte importante, ma molti sono portati a considerarlo una necessità, più che un piacere. Brooks ritiene che la società Usa sia cambiata su questo punto, perché un tempo gli americani vivevano per le soddisfazioni del lavoro, mentre adesso fanno un lavoro qualunque per vivere. Riscoprire il senso di missione della propria professione sarebbe la chiave per ritrovare una felicità duratura. Naturalmente non tutti sono d’accordo, ma se ci fidiamo della formula americana, ripuntare almeno su tutti gli altri valori è l’unica strada rimasta per avere una vita piena di gioie.