17/07/14

Questo è il motivo per cui diciamo che al saggio nulla può capitare contro l'aspettativa | Seneca

....... il venire a sapere tante cose, che né con piena sicurezza si raccontano né con piena tranquillità si ascoltano. [ qui ]

13, 1. Penso che, attenendosi a questo concetto, Democrito abbia cominciato così: «Chi vorrà vivere tranquillamente, né privatamente tratti molte cose né pubblicamente », riferendosi con evidenza alle cose inutili: infatti, se sono necessarie, sia privatamente che pubblicamente le cose da trattare non solo sono molte, ma innumerevoli; ma quando nessun dovere ordinario ci chiama, bisogna mettere un freno all'agire.
2. Chi fa molte cose, spesso dà infatti potere su sé stesso alla for- . tuna, che cosa sicurissima è l'esperimentarla raramente, e pensare, invece, sempre ad essa, senza nulla promettersi della sua lealtà: «Navigherò, se non mi capiterà nulla» e «Diventerò pretore, se non ci sarà qualche ostacolo » e «L'affare risponderà alle mie aspettative, se non interverrà qualche cosa».
3. Questo è il motivo per cui diciamo che al saggio nulla può capitare contro l'aspettativa: noi non lo abbiamo sottratto alle vicende umane, ma agli errori, né a lui tutto riesce come ha voluto, ma come ha pensato; ed in primo luogo ha pensato che qualche cosa era in grado di opporre resistenza ai suoi propositi. Necessariamente all'animo giunge con leggerezza maggiore il dolore di un desiderio fallito, se tu il successo non glielo hai promesso in ogni modo.

14, 1. Anche duttili è necessario che noi ci rendiamo (in modo da non essere troppo affezionati a ciò che è stato progettato, da saper passare a ciò cui il caso ci avrà condotto, da non aver paura grandissima del cambiamento o del piano o della condizione), a patto però che non finisca con 1'acchiapparci la mobilità di carattere, difetto ostilissimo alla quiete. Infatti, necessariamente, da una parte l'eccessivo attaccamento è ansioso ed infelice (dato che la fortuna gli strappa spesso qualche cosa) e dall'altra molto più grave è la mobilità di carattere, che in nessun luogo sa contenersi. Entrambe le condizioni sono ostili alla tranquillità, il non essere in grado di cambiare nulla ed il non tollerare nulla.
2. Soprattutto, l'animo da tutte le cose esterne deve essere richiamato in sé; confidi in sé, goda in sé, ammiri ciò che è suo, si allontani quanto gli è possibile da ciò che è estraneo e si applichi a sé stesso, non percepisca le perdite, anche ciò che è contrario lo interpreti con generosità.
3. All'annuncio di un naufragio, il nostro Zenone, sentendo che tutto quanto gli apparteneva era affondato, disse: «La fortuna comanda che io faccia filosofia con minori impedimenti». Al filosofo Teodoro, il tiranno minacciava la morte, e per di più senza sepoltura; egli gli disse: «Hai motivo per essere contento di te: hai in tuo potere un mezzo litro di sangue; quanto alla sepoltura, sciocco tu sei se credi che mi interessi se imputridisca sopra o sotto terra».
4. Giulio Cano, uomo grande più di ogni altro, all'ammirazione per il quale non è di ostacolo neppure il fatto di essere nato nel nostro tempo, dopo aver litigato a lungo con Gaio, dopo che quel Palarìde-' gli disse mentre se ne andava: «A ché per caso tu non ti compiaccia con una vana speranza, ho dato ordine che tu sia condotto al supplizio», rispose: «Ti ringrazio, ottimo principe».
5. Quale sia stato il suo pensiero, io non lo so bene; mi si presentano infatti molte ipotesi: volle essere offensivo e mostrare quanto grande crudeltà fosse quella in cui la morte era un beneficio? oppure gli rimproverò la pazzia quotidiana degli altri (ringraziavano infatti anche coloro i cui figli erano stati uccisi ed i cui beni erano stati portati via); oppure, come fosse una liberazione, accolse volentieri l'ordine? comunque sia, rispose con animo grande.
6. Qualcuno dirà: «Era possibile che, dopo questo, Gaio comandasse che egli vivesse». Non lo temette Cano: era nota la lealtà di Gaio in tali comandi. Credi che egli trascorresse senza alcun impegno i dieci giorniè che lo separavano dal supplizio? sono incredibili le parole che disse, i fatti che compì, quanto tranquillamente se ne stette.
7. Giocava a dama, quand'ecco che il centurione, che si tirava dietro la schiera dei condannati a morte, comandò che anche lui fosse fatto venire. Chiamato, contò le pedine e disse al suo compagno: «Guarda di non mentire dopo la mia morte, dicendo di aver vinto»; poi, facendo cenno con il capo al centurione, gli disse: «Mi sarai testimone che io vinco per una pedina». Tu credi che con quella tavola Cano ci abbia giocato? ci giocò alludendo.
8. Tristi erano gli amici perché stavano per perdere un uomo come lui; egli disse: «Perché ve ne state in lacrime? voi ponete il problema se le anime siano immortali: io lo saprò presto». E non cessò di scrutare la verità, persino nel momento della fine, e di fare una ricerca anche a riguardo della sua morte.
9. Lo accompagnava il suo filosofo, e non era ormai lontano il tumulo, su cui ogni giorno si faceva sacrificio a Cesare, dio nostro; questi gli disse: «A che pensi ora, o Cano? o che volontà hai?»; egli rispose: «Mi sono proposto di stare all'erta in quel momento velocissimo, per vedere se l'animo avrà la percezione di uscire». E promise che, se avesse esplorato qualche cosa, avrebbe fatto il giro degli amici ed avrebbe indicato quale fosse la condizione delle anime.
10. Ecco in mezzo alla tempesta la bonaccia, ecco un animo degno dell' eternità, che chiama la sua morte a prova della verità, che, posto in quella posizione finale, fa domande all'anima mentre se ne esce, che non solo impara fino alla morte qualche cosa, ma anche dalla morte: nessuno filosofo più a lungo. Non sarà precipitosamente lasciato da parte quell'uomo grande e di cui si deve parlare con cura; ti consegneremo al ricordo di ogni tempo, o illustrissimo uomo, della catastrofe Gaiana parte grande!
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